mercoledì, Novembre 27, 2024
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Nessuno minaccia Claudio Fava

Lo vogliono semplicemente ammazzare. Mica per una questione personale: è che il Sistema deve pur andare avanti

Nessuno ha minacciato Claudio Fava, nessuno l’ha aggredito, non è successo niente di così clamoroso da dover andare sui giornali. Semplicemente, gli hanno inviato una comunicazione personale (tecnicamente, un “avvertimento”) che dice: “veniamo quando vogliamo. Arrivederci”.

Tutto qua. L’ultima volta che qualcosa del genere è arrivata, senza parole, a casa Fava è stata nel dicembre 1983, una cassa di vino; il messaggio era chiarissimo ma non era per lui. Stavolta l’indirizzo è: “onorevole Fava Claudio, Commissione Antimafia, già “I Siciliani”, via tale numero tale, sue riverite mani”.

Il testo che abbiamo visto da buon professionista dell’antimafia lui l’ha decifrato subito: orari, serrature, scelta del percorso, particolari. Non è il primo e – riteniamo noi e lui – non sarà l’ultimo. Se lo fosse, lui non avrebbe il sense of humour di suo padre che, in un caso simile, si divertì a scherzare sul funerale di stato di se stesso. Se lo fosse – ma non lo sarà – stavolta non ci sarebbe bisogno di molti commenti perchè gli autori dei commossi cordogli, delle dichiarazioni di sdegno e di tutto il resto li conosceremmo già e quindi si potrebbero dispensare dal disturbarsi.

Ehi, signor O., ma per una cravatta tagliata, tanto dramma? Sì, e abbiamo appena cominciato. Perché qua non siamo illustri dilettanti alla Sciascia. Per noi, “professionisti dell’antimafia” ha un significato concreto e preciso, e sappiamo che ce l’ha pure per la mafia. Vuol dire “specialisti di questa guerra”, e ce ne sono pochi. Per cui, prima li togli di mezzo e meglio è. Certo, convincerli è sempre meglio, e difatti di provi. Ma se quelli non la capiscono, che devi fare?

“Ma dov’è ‘sta guerra? – dici tu – La delinquenza, la mafia? Di quali inchieste esattamente stai parlando?”.

Ecco. Intanto è proprio una guerra vera, diffusa nel territorio e permanente. Comprende bombardamenti e saccheggi, questi ultimi ormai regolari. Ha truppe, ha cervelli, ha soprattutto radici sempre più attorcigliate nella struttura profonda della nazione.

Fra tutti i paesi occidentali (meno forse i Balcani) la Sicilia è quello che da due secoli cambia di meno; la storia vi è congelata. Feudatari, scagnozzi, servi di gleba, banditi, poteri senza legge; maschere-vicerè e vicerè-mascherati: siamo arrivati così fra i moderni, e così sostanzialmente siamo restati. Questa parte s’è fusa, in reciproco accordo e tolleranza, con chi ha incontrato. Proprietari di giù con imprenditori di su; gli uni insegnando agli altri il feudalesimo e gli altri la speculazione.

Un sistema magnifico, per chi vi regna: e così, dalle periferie originarie, è andato risalendo e mescolandosi, fino a prendere piede dappertutto. Se prima militarmente occupava Catania e Napoli, adesso è saldamente piantato in Roma e Milano; con molto meno giovani a contrastarlo perché l’esperienza e la lotta meno ne ha selezionato.

“Ma non stavamo parlando di Fava? Che c’entra la storia antica con le sue inchieste?”.  Intanto storia antica non è: stiamo parlando del nostro ventunesimo secolo, in pieno medioevo. Poi, le singole inchieste non sono che l’illustrazione di capitoli del libro di storia precedente. Per esempio: che sistema economico c’è in Italia? Un mercato capitalistico liberale. Su che cosa si basa questo mercato? Sull’imprenditoria, specie la maggiore. Come sono organizzati questi imprenditori? Hanno una loro corporazione, chiamata Confindustria. E in Sicilia, chi è o era il capo ufficiale di questa corporazione? “Bing!”. Si accende la lampadina e il computer gracchia: “Un mafioso!”.

E guarda caso Antonello Montante, quattordici anni di condanna (a casa propria) per mafia, è nella principale indagine di Claudio Fava.

Chi era il principale politico, e capo del governo, del regno italico? “Bing!”. “Mafia, mafia, amico dei mafiosi!” strilla ancora il computer proiettando la foto di Giulio Andreotti. E in Sicilia? I vicerè regionali? E i principali cacicchi? E il boss dell’unico giornale? “Bing! Bing! Bing!” impazzisce il computer vomitando in rapida successione decine di personaggi incravattati. E su ognuno di questi c’è stata un’indagine, o un tentativo di indagine, a volte finita bene e altre molto male.

La mafia – che noi ancora chiamiamo mafia: sarebbe meglio “sistema mafioso” o anche semplicemente “sistema” – controlla i suoi interessi, ha gli occhi aperti, si muove insieme; non in termini di singola battaglia ma di strategia coordinata, di scacchiera. Noi no, e infatti parliamo moltissimo di indagini (“chi ha fatto questo?”, “chi c’era dietro quello?”, “chi ha visto quell’altra cosa?”), che sono indispensabili ma non decisive. Decisiva è la politica, e di questa – soprattutto in compagnia – ce n’è assai poca.

Ma politica non è questo o quel partito, quell’abile combinazione, quell’alleanza. Politica – quella che noi chiamiamo antimafia sociale – è il ragazzo che cresce, è imparare il coraggio, e seguire dei capi liberi e di cui si ha stima; è scrivere, è usare i computer – e andare in piazza.

E’ la libertà nelle vene, è il piacere di vivere, il saper dire con ordine ciò che il cuore urlerebbe. E’ la fiducia nei giovani, il non sentirsi mai, neanche eroicamente, soli. Di qua nascono le Bastiglie e, nei tempi moderni, i Sessantotti.

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