domenica, Novembre 24, 2024
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Prove napoletane di sommovimento

“Chiù nera ra mezzanotte nu po’ venì…”. E adesso cominciano le “fasi due”, una per i poveri e una per i ricchi. Vediamole a partire da una grande capitale dei sud

 Il Covid ci ha “improvvisamente” rivelato che il sistema in cui viviamo è brutalmente ineguale. Possiamo raccontarci tutte le storie che vogliamo ma i fatti – i fatti della crisi e quelli del dopocrisi – – sono impietosi, estranei alla morale dell’autoassoluzione con cui abbiamo vissuto l’emergenza.

Ed è dai fatti – a Napoli, ma di riflesso in una parte grandissima del Paese, e non solo del nostro – che bisogna ricominciare.

di Mario Spada

I giorni della quarantena: armiamoci e partite

“Le prime richieste di aiuto ci sono arrivate dal nostro rione, che è un rione già abbastanza difficile. Al che le altre associazioni ci hanno chiamato per dirci “c’è qualcosa che non va, le famiglie hanno fame”. I territori che già erano devastati economicamente e che erano state distrutti dalla Camorra, oggi soffrono più che mai. Ci siamo chiesti cosa potevamo fare: le iniziative a Napoli, soprattutto quelle del sospeso sono tantissime. Napoli è la città del sospeso, quindi, insieme alle altre iniziative solidali – come il panaro, come la spesa – noi abbiamo deciso di mettere in atto il carrello solidale, il carrello sospeso”

Maria Prisco è tra i fondatori di Opportunity Onlus, organizzazione anticamorra nata a Napoli nel 2010 dall’idea di quattro diciottenni. Da circa dieci anni la onlus lavora instancabilmente in diversi quartieri della città. Dal 2017 l’organizzazione gestisce alcuni beni confiscati al Rione Sanità dove offre assistenza legale, psicologica e medica gratuita, laboratori di teatro e scrittura rispondendo ai bisogni dei ragazzi del quartiere e delle loro famiglie.

Nel corso dell’emergenza Covid, Opportunity Onlus ha sospeso le sue solite attività e i volontari si sono fatti promotori dell’iniziativa del Carrello Solidale coinvolgendo cittadini ed esercenti nella raccolta di beni di prima necessità da distribuire alle famiglie in difficoltà. La rete di solidarietà costruita intorno a questa iniziativa ha, infatti, lavorato per sopperire alla lentezza delle istituzioni locali colpevolmente sorde nei primi giorni di emergenza e, ad oggi, del tutto impreparate a gestire la fase di ricostruzione. Incapacità o inerzia che rischia di condannare ampie porzioni di cittadini alla totale marginalità:

“Con questa iniziativa abbiamo sopperito più che alla mancanza delle istituzioni, a una loro lentezza. Ti faccio un esempio molto semplice: la cassa integrazione in deroga che ancora non arriva. Abbiamo tantissime famiglie che hanno bisogno della spese perché magari il padre o la madre è in cassa integrazione in deroga e sta aspettando da Marzo e sono praticamente due mesi che in quella famiglia non c’è reddito. Considera che le famiglie hanno bisogno di mangiare, la fame non aspetta la lentezza della burocrazia. Allora, l’unica cosa che noi possiamo fare è sopperire la loro mancanza portando le spese ma le associazioni, le catene di solidarietà che si sono create, non possono di certo sopperire a una liquidità di cui hanno bisogno le famiglie per pagare, ad esempio gli affitti. Noi non possiamo sopperire a questo ma, nel mentre, c’è la camorra che può farlo”

di Mario Spada

 Vogliamo il pane e anche le rose

L’attività di supporto delle reti associative napoletane nei giorni della quarantena è stata essenziale: senza gli attivisti di realtà come lo Sgarrupato, l’Ex Opg Je so’ pazzo, Opportunity Onlus migliaia di persone non avrebbero potuto nemmeno mangiare. Oppure, per farlo avrebbero dovuto scendere a patti con la loro dignità e la loro coscienza rivolgendosi alla organizzazioni criminali instaurando una complicità che non sarebbe stata senza prezzo. Le reti solidali hanno permesso a molti di sopravvivere, ma da quand’è che abbiamo preso a considerare accettabile che l’esistenza di molti si svolga relegata al piano della sopravvivenza? È stato quando abbiamo lasciato che la solidarietà – verso i migranti, verso i lavoratori e gli studenti – fosse bollata come buonismo o quando ci siamo affacciati alla finestra per gridare al vicino – lo stesso con cui qualche settimana prima cantavamo l’inno nazionale sul balcone di casa – che portando a spasso il cane, rigorosamente munito di mascherina, rischiava di ammazzarci tutti?

Mario Spada è un fotografo napoletano. Ha collaborato con diverse testate nazionali e internazionali ed è autore di uno degli scatti più noti tra i tanti girati sul web nei giorni della quarantena. All’ospedale Covid di Boscotrecase ha immortalato il malore di una infermiera, svenuta – dopo un turno di dodici ore – per la fatica.

Oltre a documentare ciò che gli succede intorno, Spada proietta ogni sera dalla sua finestra un lavoro fotografico. A fargli da telo le mura di Porta San Gennaro, nel quartiere San Lorenzo:

“Per quanto riguarda la storia delle proiezioni è nato tutto il 12 Marzo, anzi il giorno prima, l’11. Sono andato alla studio a prendere il proiettore perché volevo, appunto, provare a fare qualcosa. Diciamo che non riesco a stare fermo, anzi, forse in questo periodo del coronavirus veramente non ho avuto un attimo di tempo.

La prima volta ho fatto proprio un test: ho proiettato le immagini di un lavoro che ho fatto all’interno di una chiesa. Ho arredato una chiesa: questa chiesa, abbandonata, era stata spogliata di tutti gli affreschi ma c’erano ancora gli alloggi vuoti. Ho fatto dei ritratti e li ho montati all’interno di questa chiesa. La prima proiezione è stata questa, ma è stata giusto una prova. Una cosa importante è che ho aderito a questa sorta di iniziativa che si chiama “Aprite le finestre: sciorinate!” che però viaggia abbastanza zoppicante, nel senso che una volta proiettano, una volta no; se hanno del materiale proiettano, sennò no. Invece per me è diventata una sorta di impegno giornaliero, un po’ come se fosse una specie di contrasto all’esclusiva necessità dei bisogni primari.

Cioè io non ho soltanto bisogno di mangiare, cacare, lavarmi, ma ho anche bisogno di nutrire la bellezza, l’arte, di non dimenticare quello che succede nel mondo, in altri posti del mondo. C’è una bellissima frase che ho imparato da un mio amico rugbista che ora ha tipo settantasei anni, tale Franco Tarle: il saggio con gli ultimi due soldi comprò un soldo di riso e un soldo di rose. Significa che è vero che la pancia ha bisogno di nutrimento ma anche la nostra testa ha bisogno di nutrimento perché sennò poi ci troviamo ad essere sconfitta continuamente e ad essere spostati dove vuole il potere.

E purtroppo questa è la nostra sconfitta: la massa segue i principi di quelli che la sfruttano, sono diventati quasi i poliziotti di questi qua. Io non sono un tipo che va a correre: l’ho fatto fino ai quarant’anni, ora sono cinque o sei anni che non faccio più niente. Io non vado a correre però io voglio che le persone che hanno bisogno di fare attività sportiva la facciano, ovviamente con tutte le precauzioni.

Perché, voglio dire, se ti devi fare una corsetta – anche di dieci chilometri – puoi evitare benissimo le persone, nun ce sta nisciuno in miezz a via, c’è pochissima gente. Invece, i ben pensanti – che stanno dal loro balconcino, dal terrazzo della casa figa – che ti additano, quelli mi fanno incazzare.”

di Mario Spada

 Da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni

Dalla finestra del quartiere San Lorenzo da cui Spada cerca di sovrapporre al piano della necessità quello di una bellezza riavvicinata ed accessibile a Marano, periferia Nord di Napoli ci sono circa venti chilometri. Secondo la app di Google per calcolare i percorsi, ci si impiegano in macchina circa trenta minuti; secondo chi quella strada la percorre quotidianamente ci vuole anche meno se il traffico è clemente.  Eppure, dall’inizio della quarantena, spostarsi dalla periferia verso il centro è diventato impossibile: uno spostamento di questo tipo – non comprovato da documentate esigenze lavorative – rappresenta una violazione delle misure di contenimento.

Così, periferia e centro si allontano ancora di più: l’unica possibilità di realizzare una continuità di sorta è la messa in campo di una pratica politica che passa dal mutuo soccorso ma lo travalica, disegnando una nuova possibile prospettiva.

Francesca Licata. Francesca, è una insegnante di scuola media. Il suo tempo libero lo dedica alla politica: è, infatti, attivista della Casa del Popolo di Marano. Lei e i suoi compagni – in continuità con l’iniziativa promossa dall’Ex Opg Je so’ pazzo di Materdei – hanno raccolto fondi per la distribuzione di pacchi alimentari alle famiglie di Marano:

“Noi, un po’ come tutte le Case del popolo, abbiamo cercato di aiutare i cittadini per quelle che potevano essere le istanze primarie legate soprattutto alla spesa, alle medicine. Abbiamo cominciato, noi di Marano, con un’iniziativa che era “Maria acala o’ panaro!” in cui ci mettevamo a disposizione delle famiglie, degli anziani, che non potevano scendere da casa per fare la spesa. Per cui – con un numero di telefono che abbiamo pubblicizzato con i volantini e sui social – ci siamo messi a disposizione e abbiamo portato la spesa. Poi ci siamo resi conto che le esigenze andavano ben oltre al non poter scendere a fare la spesa e man mano si facevano sempre più complicate perché significava non avere più la possibilità di andare a lavorare e di conseguenza molti non avevano più la possibilità di mettere il piatto a tavola.

di Mario Spada

A quel punto il nostro numero è diventato quello per tutte le famiglie che avevano bisogno di un pronto intervento per i beni di prima necessità. La cosa è andata sempre avanzando perché le telefonate diventavano sempre di più, per cui abbiamo creato anche una raccolta fondi ed oggi stiamo ad oltre tremila euro. Con questi soldi abbiamo fatto delle spese mirate: pannolini, cibo per bambini piccoli, medicine. Per cui ci siamo preoccupati di fare dei pacchi con le cose di prima necessità e – dove possibile – con cose specifiche richieste dalle famiglie. Abbiamo raggiunto oltre cento famiglie e siamo riusciti anche ad avere anche una buona risposta da parte di persone che ci hanno chiesto di fare i volontari, di aiutarci in questo lavoro.

Inoltre, abbiamo istituito – insieme ai ragazzi dell’Ex Opg – un telefono rosso per fronteggiare quelli che potevano essere i problemi nell’ambito lavorativo, per quelli che continuavano a lavorare e avevano problemi di sicurezza o non gli venivano assicurati i propri diritti. Un telefono alla quale chiamare per avere una consulenza e un aiuto immediato. Noi stiamo cercando di portare avanti non una mera attività di mutualismo, nel senso di assistenza, ma cerchiamo anche di rispondere a dei bisogni quali compilare le domande per accedere ai bonus alimentari che ha messo in campo il comune, la regione, stiamo dando anche un sostegno per compilare i moduli, selezionare i documenti da spedire.

Insomma, stiamo cercando di supportare le famiglie in tutti i modi: il nostro è un intervento a trecentossessanta gradi. Noi speriamo che questo scuota le coscienze di tutti, perché quello che noi chiediamo – giacché la situazione è molto seria – non si può solamente risolvere con un aiuto materiale, ma c’è bisogno di qualcosa che arrivi in modo radicale, come un reddito di emergenza, che possa rispondere al fatto che queste famiglie non staranno bene da qui a quindici giorni. Continueranno a stare male, a soffrire moltissimo della situazione di emergenza, delle restrizioni anche in ambito lavorativo.

Bisognerebbe essere più lungimiranti in questo sostegno e un reddito di emergenza sarebbe opportuno fino a quando non si creino quelle opportunità lavorative che possano risollevare queste famiglie da una situazione allucinante. Quello che noi facciamo – così come lo fa l’Ex Opg – è portare le persone a chiedere quelli che sono i loro diritti perché noi, oltre a dare la spesa, le medicine, le mascherine, cerchiamo anche di ricordagli quali sono i loro diritti. Lo scopo è anche questo: un risveglio delle coscienze”

di Mario Spada

 Che fare? Perché niente rimanga come è

La fine della quarantena è giunta: sospirata, resa romantica dalle parole spese da ognuno per le cose da fare appena le misure di contenimento si sarebbero allentate. Oppure odiata, maledetta, bestemmiata perché simbolo di una normalità che ricomincia senza che nulla sia veramente cambiato. Le valutazioni stanno a ciascuno, perché si legano indissolubilmente con la visione del mondo di cui si è portatori: le generalizzazioni sono difficili e tradiscono spesso il proprio generale intento. Invece di farci vedere più chiaramente le cose, ci spingono ad eliminare le differenze tra queste. Se c’è una cosa, invece, che i fatti fino a qui raccontati ci impongono di tenere in considerazione sono proprio le differenze.

Sin dall’inizio della quarantena siamo stati tutti investiti dalla retorica della livella: ci siamo raccontati – ascoltando le comunicazioni del governo – che saremmo stati tutti uguali, rinchiusi in casa in attesa di giorni migliori. Ma poi, con tempi diversi, ci siamo ricordati che c’è gente – nemmeno poca – che una casa non ce l’ha. O se la possiede si tratta di una casa in cui è impossibile restare confinati per mesi: l’immagine dei vasci si è progressivamente imposta. Se, in parte, è stata utilizzata per favorire processi di spettacolarizzazione della povertà  – per cui le misere condizioni di vita a cui alcuni sono obbligati sono divenute materiale da filmare, montare e commentare con toni affranti tra la riproposizione di uno sceneggiato e la ricetta di una nuova pizza – è altresì vero che ha contribuito a riportare la questione alla sua giusta dimensione: non siamo tutti uguali, alcuni sono più uguali di altri.

La quarantena e le misure di contenimento imposte ai cittadini sono elementi che vanno a sommarsi alle profonde diseguaglianza già esistenti, seppure generalmente ignorate ed occultate. Le iniziative solidali di città come Napoli hanno avuto questo come principale merito, restituire visibilità a coloro di cui questo paese colpevolmente si dimentica. Ora, che lentamente torniamo alla quotidianità, è tempo di chiederci cosa possiamo fare affinché chi vive ai margini della società non sia condannato all’invisibilità. Oltre ad offrire tutto il supporto materiale, è tempo di pianificare ma senza essere ingenui.

È ovvio che la  risposta al “Che fare?” non può essere semplice: il problema è complesso e per questo merita una risposta che lo sia altrettanto. Risposte articolate possono essere formulate solo collettivamente: è insieme, facendo tesoro dell’esperienza particolare delle singole realtà, che si può capire come cambiare qualcosa, per cambiare tutto.

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