Come s’imbavaglia una città
La storia
Pentiti minacciati, mafiosi in redazione, vittime di cui è vietato parlare, notizie inventate a beneficio dei boss. Un giornale usato come un’arma, un monopolio che strangola la verità. Ed ecco un breve florilegio di alcuni casi esemplari.
Prologo in Assise (1997)
DOMANDA. – Lei si è mai occupato della ditta Avimec di Catania come quotidiano?
CIANCIO. – Chi è la ditta Avimec? Io non so neanche chi sia.
DOMANDA. – Il signor Giuseppe Ercolano la conosce?
CIANCIO. – Giuseppe Ercolano padre o figlio?
DOMANDA – Padre?
CIANCIO. – Sì, lo conosco.
DOMANDA – Lei ricorda di un articolo senza firma pubblicato sul suo quotidiano il 29-12-93?
RISPOSTA – No.
DOMANDA – Allora come ha avuto modo di conoscere il signor Ercolano?
RISPOSTA – L’ho incontrato in aereo in un viaggio da Roma a Catania.
È il 21 marzo 1997 quando Mario Ciancio Sanfilippo, all’epoca non ancora imputato ma semplice testimone, compare davanti ai giudici della Corte d’Assise di Catania per spiegare con quali parole, e soprattutto con quali intenzioni, il quotidiano «La Sicilia» da lui diretto abbia raccontato le vicende della mafia catanese.
La Procura della Repubblica lo cita come teste nel processo per l’omicidio di Giuseppe Fava. E Ciancio, coperto dalla certezza del silenzio mediatico – tutti i giornali e i telegiornali al momento editi in questa parte dell’isola rispondono esclusivamente a lui – si presenta a raccontare una versione dei fatti costituita soprattutto di “non so” e “non ricordo”.
Il boss in redazione (1993)
Della storia dell’informazione catanese, all’epoca dell’audizione di Ciancio, sono stati già scritti i capitoli più importanti. L’omicidio Fava, avvenuto il 5 gennaio 1984; l’ostinazione con cui «La Sicilia», anche dopo il 5 gennaio, ha continuato a esibire il suo stupore e la sua indignazione ogni volta che si accostasse la parola “mafia” alla parola “Catania”; almeno un paio di grossolane interferenze con le indagini sull’uccisione di Fava, mentre i pentiti raccontavano, o stavano per raccontare, ciò che sapevano del delitto; e perfino un paio di necrologi rifiutati alle vittime di mafia, per l’inammissibile presenza nel testo dell’impronunciabile parola mafia.
Tra questi episodi ce n’è uno tutto sommato minore, ma destinato a rimbalzare a lungo nelle pagine di ordinanze e sentenze. Si tratta della visita di Pippo Ercolano, padre del boss Aldo Ercolano, alla redazione del giornale. Un’iniziativa, quella del patriarca della nota famiglia mafiosa, assunta per lagnarsi con Ciancio della pubblicazione di un articolo in cui gli si dava del mafioso. E conclusasi con una intempestiva lezione di giornalismo impartita da Ciancio, in presenza dello stesso Ercolano, al cronista autore dell’articolo.
È stato quest’ultimo, Concetto Mannisi, a raccontare in più riprese l’episodio agli investigatori. L’articolo uscì, per la precisione, il 24 ottobre del 1993. Portava come titolo Denunciati i sindaci dal ’78 a oggi e riferiva, tra l’altro, di controlli alla ditta Avimec, proprietà appunto di Ercolano. Una decina di giorni dopo la sua uscita, Mannisi viene convocato in direzione per rendere conto, personalmente ad Ercolano, di quanto da lui scritto.
A D.R.: Effettivamente nell’Ottobre u.s. ho pubblicato un articolo su «La Sicilia» avente per oggetto la denuncia a piede libero da parte del Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri nei confronti di diversi titolari di aziende per violazione delle leggi sull’inquinamento. Nell’articolo predetto facevo i nomi dei denunziati e, tra gli altri, citavo quello di Ercolano Giuseppe, definendolo «massimo esponente della nota famiglia sospettata di mafia» […].
Il giorno 3 Novembre u.s., mentre mi trovavo in servizio nella redazione del giornale, sono stato avvicinato dal capo cronista dottor Vittorio Consoli il quale mi chiese se ero stato autore di un articolo su Ercolano, aggiungendomi che nella stanza del Direttore era presente proprio l’Ercolano che voleva avere conto e ragione di quanto era stato scritto sulla sua persona. Risposi al Consoli che effettivamente avevo scritto un articolo sull’Ercolano e, su richiesta dello stesso, cercai nella raccolta il predetto articolo che consegnai allo stesso Consoli. Dopo circa 15 minuti venni convocato dal Direttore, tramite il Consoli, e mi trovai davanti Ercolano Giuseppe che mi venne presentato dal dott. Ciancio. […]
Il dott. Ciancio mi rese edotto del fatto che l’Ercolano era venuto per protestare per l’articolo da me pubblicato che offuscava la sua immagine di imprenditore. Aggiunse che l’Ercolano aveva manifestato l’intenzione di querelare la testata, cosa confermata in mia presenza da quest’ultimo, per il tenore dell’articolo; io risposi che, pur potendo comprendere il disappunto dell’Ercolano, non avevo fatto altro che dare indicazioni che già erano di dominio pubblico […]. Precisai anche, su richiesta del Direttore, che avevo appreso dai Carabinieri che Ercolano Giuseppe era esponente di rilievo della predetta “famiglia” mafiosa Santapaola-Ercolano. […]
Il dott. Ciancio mi fece rilevare che se la qualificazione di “mafioso” proveniva dal Ministro degli Interni, sarebbe stato giusto riportarla. Ma ciò in occasione della successiva pubblicazione di un articolo che avrei dovuto scrivere a proposito del Comune di Acicatena o comunque in un altro contesto in cui si fosse parlato della mafia a Catania; mi faceva, invece, rilevare che era stata inopportuna la mia affermazione sul conto dell’Ercolano nel contesto dell’articolo sulle violazioni ambientali. […]
Certamente rimasi infastidito per il fatto che il dottor Ciancio aveva fatto dei rilievi sul mio articolo in presenza dell’Ercolano e infatti in separata sede ebbi modo di far notare la predetta circostanza al Direttore. […]
Il Ciancio mi spiegò che aveva ritenuto opportuno convocarmi in presenza dell’Ercolano per far intendere a costui che non c’era nessuna malizia nel mio comportamento e che in sostanza avevo dato pubblica notizia di informazioni ricevute da fonti ufficiali.
Quando compare come testimone al processo Fava, poco più di tre anni dopo quest’episodio, Mario Ciancio non sembra ricordare nulla della visita di Ercolano, e men che meno della sgradevole lavata di capo al suo giovane cronista. Ammette però di conoscere Pippo Ercolano, pur dicendo di averlo incontrato una volta in aereo e basta più. Molti anni dopo, quando gli investigatori lo interrogheranno in veste di indagato, il suo ricordo si farà più ricco e articolato. E la vicenda della visita di Ercolano in redazione assumerà, nelle sue parole, i contorni di un’amabile, cordialissima e scherzosa conversazione. Vissuta da Ciancio – non sappiamo se anche da Ercolano – nel segno della più assoluta, quotidiana normalità.
A D.R.: Effettivamente nel novembre u.s. ho ricevuto la visita del signor Ercolano Giuseppe che è venuto a trovarmi nel mio ufficio per lamentare la pubblicazione di un articolo nel corso del quale egli veniva indicato come “noto boss mafioso”. All’incontro era presente anche il capo cronista Vittorio Consoli […] Il Consoli chiese al dott. Mannisi quale fosse la fonte delle informazioni utilizzate nell’articolo e il dott. Mannisi rispose che la fonte delle sue informazioni era l’Arma dei Carabinieri. Nel corso della conversazione l’Ercolano fece presente che avrebbe querelato il giornale per il contenuto dell’articolo. Il tono era comunque scherzoso tanto è vero che anche io mi sono messo a ridere anche per l’importo di diversi miliardi di danni richiesti dall’Ercolano. […]
Effettivamente, come le SS.LL. mi fanno rilevare, feci presente al dott. Mannisi che non sarebbe stato necessario che egli nel corso di un articolo avente per oggetto il sequestro di una ventina di ditte non in regola con le norme di protezione ambientale, facesse riferimento alla qualifica mafiosa del titolare. […]
Non ricordo se il dott. Mannisi successivamente commentando con me l’episodio si sia lamentato del fatto che io lo avessi convocato in presenza dell’Ercolano. D’altra parte voglio aggiungere che la conversazione con l’Ercolano avvenne in un clima di ordinaria amministrazione per cui non ho memoria più particolare dell’eventuale reazione del Mannisi.
Fin troppo facile, certo, ironizzare sul clima di «ordinaria amministrazione» evocato da Ciancio per quello che a tutta evidenza appariva – e che il giornalista percepì – come un solenne liscebusso inflitto dal direttore a un suo giornalista, alla presenza di un mafioso offeso. Più difficile stabilire quante volte Mario Ciancio abbia incontrato Pippo Ercolano. Al processo Fava nel ‘97, abbiamo visto, il direttore de «La Sicilia» parla solo di un’occasionale coincidenza di voli aerei. Un anno prima, deponendo come testimone in un altro processo, aveva affermato invece di averlo visto due volte, la prima in occasione di uno sciopero degli autotrasportatori e la seconda, appunto, a seguito della pubblicazione del pezzo di Mannisi. Interrogato dai giudici nel 2013, cambierà ancora versione dichiarando di averlo incontrato solo quella volta in redazione, insieme a Consoli e Mannisi.
Per i giudici del Tribunale Misure di Prevenzione, inoltre, le visite di Ercolano alla redazione de «La Sicilia» non si esauriscono alla vicenda Mannisi. Ce ne sarebbe un’altra, di molti anni precedente, di cui parla invece il pentito Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra. E che ancora una volta nasce da un articolo che riguarda la ditta Avimec.
I due episodi sembrano in parte sovrapponibili: c’è sempre di mezzo un articolo sull’Avimec, c’è una visita di Ercolano in redazione, e c’è un cazziatone a chi ha scritto l’articolo. Cambiano però le date, protagonisti e modalità: Siino parla dell’82 o dell’83 e non c’è di mezzo Mannisi, ma due giornalisti non meglio identificati. Non risulta che Ercolano incontri direttamente Ciancio. Il boss, secondo Siino, si muove da solo in redazione, con la dimestichezza di chi conosce bene i luoghi. E non c’è traccia, infine, dell’amabilità che, a dire di Ciancio, avrebbe caratterizzato la conversazione su Mannisi.
Nel settore dell’editoria – racconta Siino – ho sentito parlare di Ciancio Sanfilippo Mario. Ricordo un episodio specifico. Accadde che un giorno Pippo Ercolano mi disse che nel quotidiano «La Sicilia» era stato pubblicato un articolo ove si faceva il suo nome e quello della sua impresa, l’Avimec, azienda che il gruppo mafioso chiamava “a zona” con riferimento alla zona industriale in cui era collocata. L’Ercolano – alla lettura dell’articolo – ebbe un’incontenibile esplosione di ira tanto da minacciare di uccidere i giornalisti autori dell’articolo. Io cercai di tranquillizzarlo ma fui costretto ad accompagnarlo nella redazione, esortato dal figlio Aldo Ercolano che voleva che io mantenessi il controllo del padre.
Pippo Ercolano entrò in redazione, mostrando di ben conoscere i luoghi, gridando che voleva parlare con i due giornalisti autori dell’articolo. In redazione, alla presenza di altre persone, Pippo Ercolano gridava e i due giornalisti cercavano di giustificarsi. Io – su mandato di Aldo Ercolano – cercai di tranquillizzare Pippo Ercolano, riuscendovi dopo non pochi sforzi. […]
Se mal non ricordo, l’episodio che ho sopra riferito, risale al 1982 o 1983.
Per gli avvocati di Ciancio, queste differenze significano che il racconto di Siino non è credibile. I giudici arrivano a una conclusione ben diversa: i due racconti sono diversi perché si riferiscono a episodi diversi. E in effetti, per tutti e due gli episodi è possibile trovare un riscontro sul giornale. Nel caso di Mannisi, ovviamente, c’è l’articolo scritto da lui. Mentre, per la vicenda dell’82, c’è una coppia di articoli usciti a un giorno di distanza. Il primo, del 18 dicembre, parla dell’Avimec e fa il nome di Grazia Santapaola (moglie, appunto, di Ercolano) [vedi foto 1]. Il secondo, del giorno dopo corregge il tiro: confermando che, senza dubbio, qualcuno si è rivolto alla redazione per lamentarsi del primo pezzo. [vedi foto 2]
In realtà – concludono i giudici – a ben leggere le dichiarazioni del Siino, emerge che l’episodio da lui riferito è del tutto diverso da quello relativo all’articolo redatto dal Mannisi. Ciò in quanto il collaborante ha riferito: che i fatti avevano avuto luogo nel 1982 o 1983, dato questo riscontrato dalla pubblicazione dell’articolo sul quotidiano La Sicilia del 18.12.1982; che l’Ercolano si era diretto in redazione ed aveva parlato direttamente con i giornalisti responsabili dell’articolo “incriminato”, non (come sarebbe avvenuto nel 1993) con il direttore della testata che già all’epoca era il proposto; che l’Ercolano era stato accompagnato da esso Siino la cui presenza non era stata notata nell’anno 1993 dal Mannisi né dallo stesso Ciancio Sanfilippo. […]
Il riferimento nell’articolo in oggetto alla moglie dell’Ercolano, Grazia Santapaola, accostato al nome del boss allora latitante Nitto Santapaola, appare circostanza compatibile con il narrato del Siino ed in particolare con la reazione violenta dell’Ercolano, in tal senso dovendosi interpretare il ricordo del collaboratore di giustizia circa il riferimento che l’Ercolano aveva fatto al suo “nome” citato nell’articolo pubblicato dalla Sicilia.
Agli atti di molti processi di mafia, l’episodio di Mannisi verrà evocato come emblematico della sudditanza de «La Sicilia» verso la famiglia mafiosa dei Santapaola. Ma ci sono molti altri episodi – non tutti presi in considerazione dai giudici che hanno disposto le misure di prevenzione – che di questa sudditanza possono aiutare a definire circostanze e contorni. Per raccontarli, basta scorrere i ritagli de «La Sicilia» collezionati in questi anni. Accompagnandoli, quando è possibile, con i dovuti riscontri giudiziari.
Il caso Asciolla (1984)
Sono passati poco più di sei mesi dall’omicidio Fava quando un magistrato catanese, il dottor Giuseppe Torresi, si reca a Belluno per interrogare un detenuto, anch’egli catanese, che ha da poco annunciato – con una lettera riservata al ministro della Giustizia – di voler rendere dichiarazioni sull’omicidio. Si chiama Luciano Grasso. Le indagini lo indicano come vicino al clan Ferlito, ferocemente opposto a quello di Santapaola. Pare che da Catania Grasso si sia allontanato volontariamente, anni prima: probabilmente per non correre il rischio di finire ammazzato.
Quando arriva il dottor Torresi, Grasso ha però in mano un foglio di giornale. Si tratta de «La Sicilia» del giorno prima, 18 luglio 1984 [vedi foto 3]. Il quotidiano diretto da Ciancio ha già riferito, con tempismo del tutto inedito – ventiquattr’ore di anticipo – ogni dettaglio della riservatissima missione del sostituto procuratore. E qualcuno, con altrettanto tempismo, è pure riuscito a far arrivare una copia del quotidiano a Grasso, benché quest’ultimo si trovasse rinchiuso in un carcere del Veneto.
Nel giornale che Grasso tiene in mano spicca un titolo a quattro colonne: «Un detenuto pentito della malavita catanese svelerà i nomi degli uccisori di Giuseppe Fava». Il nome di Luciano Grasso è ben in evidenza, nel sommario del pezzo. E c’è ben in vista anche la sua fotografia, corredata da una didascalia: «Luciano Grasso: che cosa rivelerà?». Il servizio contiene inoltre l’indicazione del carcere di detenzione del pentito e perfino l’indirizzo della sua residenza di Catania. Grasso, prima di riferire al magistrato quanto ha da dire, manifesta preoccupazioni per la propria incolumità.
Non era mai successo, prima di quest’episodio, che la notizia delle rivelazioni su un delitto di mafia venisse pubblicata prima delle rivelazioni stesse. «I Siciliani», che denunceranno «La Sicilia» per violazione del segreto istruttorio, racconteranno che per scrivere quel pezzo è appositamente tornato dalle ferie il giornalista Enzo Asciolla, amico del procuratore aggiunto Giulio Cesare Di Natale. Quest’ultimo magistrato, all’epoca dei fatti, è già stato al centro delle indagini del Csm sulle relazioni pericolose tra pezzi della Procura catanese e Cavalieri del lavoro (il cosiddetto “Caso Catania”). Di Natale, di lì a pochi mesi, si dimetterà dalla magistratura. Anticipando il ministero di Grazia e Giustizia, che aveva appena deciso di sospenderlo dal servizio.
Secondo i magistrati incaricati di gestire Grasso, la notizia del pentimento avrebbe dovuto restare segretissima. E non solo nel senso, ovvio, che non doveva comparire in quel modo su «La Sicilia». Ma perfino nel senso che non avrebbe dovuto nemmeno arrivare a Di Natale, del quale diversi colleghi non si fidavano.
Negli atti del procedimento successivamente aperto a Messina sulla fuga di notizie si legge tra l’altro che il procuratore generale di Catania Filippo Di Cataldo «non condivideva il comportamento istruttorio del Procuratore aggiunto (Di Natale, n.d.r.), dato che ha dato incarico di raccogliere le deposizioni del presunto pentito Grasso Luciano al dott. Torresi Giuseppe (Sost. Procuratore della Repubblica) dandogli la tassativa disposizione di non dare alcuna notizia al dott. Di Natale sul contenuto della lettera trasmessa dal detenuto Grasso al Ministero degli Interni».
«La Sicilia», tra le righe di quest’inconsueto scoop, non perde l’occasione per ribadire che la mafia, con l’omicidio Fava, non può entrarci nulla: «Le indagini sul delitto Fava, come è noto – scrive infatti Asciolla – sono sempre in alto mare, circoscritte come sono all’ambito mafioso». Ma ciò che conta davvero è l’effetto che la pubblicazione dell’articolo ha su Grasso.
«Sul piano delle considerazioni che riguardano certo modo di fare giornalismo – si leggerà, anni dopo, nel provvedimento di archiviazione emesso dalla Procura di Catania in favore di Asciolla – sta il dato, oggettivo e indiscutibile, che la tempestività che ha caratterizzato la pubblicazione della notizia ha rischiato di pregiudicare l’esito della “missione” affidata al dr. Torresi e di spegnere sul nascere la risoluzione del “pentito” di fornire alla magistratura catanese le preannunciate importanti rivelazioni, talché è lecito esprimere riserve su tale operato». Di Luciano Grasso, da quel momento, non si sentirà più parlare.
Necrologi negati (1985-1986)
Ventotto ottobre 1985. Luigi Montana, cinquantanove anni, padre del commissario della Mobile di Palermo Beppe Montana ucciso tre mesi prima dalla mafia, si presenta alla concessionaria pubblicitaria del quotidiano «La Sicilia» per pubblicare a pagamento un necrologio in memoria del figlio. Questo il testo: «La famiglia con rabbioso rimpianto ricorda alla collettività il sacrificio di Beppe Montana Commissario di P.S. rinnovando ogni disprezzo at mafia e suoi anonimi sostenitori».
L’addetto allo sportello, però, risponde che deve chiedere l’autorizzazione per la pubblicazione. Si allontana e, al suo ritorno, comunica che, su insindacabile decisione del vice direttore Corigliano e personalmente del direttore responsabile Mario Ciancio, la pubblicazione del necrologio viene respinta allo sportello. «Papà ritirando il modulo – riferirà poi agli inquirenti Dario Montana, fratello di Beppe – gli appone sopra la dicitura “testo respinto allo sportello a Catania il 28.10.1985 alle ore 18.30, su disposizione del vice direttore Corigliano e del direttore Mario Ciancio” e chiede ad un signore, che era in fila, se poteva apporre la propria firma e l’indirizzo, per attestare quanto stava avvenendo».
A raccontare pubblicamente la storia del necrologio rifiutato, pochi mesi dopo il fatto, è lo stesso Luigi Montana. Che ne parla a Milano, durante un convegno di «Società civile». E riferisce l’episodio nei più minuti dettagli: «È stato Mario Ciancio, il direttore, personalmente lui, a rifiutarlo. Quando allo sportello ho mostrato il testo, l’impiegato mi ha detto che doveva chiedere l’ autorizzazione. “Sa, conosco il mio mestiere”, ha commentato. Torna dopo un po’, e quasi orgoglioso per la sua lungimiranza mi dice: “Avevo ragione: ho parlato personalmente con il direttore Mario Ciancio. Gli inserzionisti non devono fare apprezzamenti, mi ha risposto, a combattere la mafia ci pensa il giornale”».
Alcuni anni dopo, nel 2009, su Rai 3 va in onda una puntata del programma di inchiesta giornalistica «Report» in cui parla di Catania e si torna a raccontare la vicenda Montana. Alla trasmissione segue la consueta levata di scudi dell’establishment in difesa del buon nome della città, o per meglio dire dei suoi padroni. Ed è in questo contesto che Tony Zermo – firma di punta de «La Sicilia», cui il quotidiano di Ciancio affida spesso i pezzi sulla mafia – fornisce dell’episodio una ricostruzione che vorrebbe difendere l’operato del suo direttore, ma che risulta assolutamente surreale. «C’è stato un equivoco – scrive Zermo –: il condirettore Piero Corigliano aveva mandato il proto a dire ai familiari di Montana che forse sarebbe stato meglio fare una correzione al testo che parlava di un delitto di mafia dagli “alti mandanti”. Chi erano questi “alti mandanti”? il Presidente della Repubblica? Il Capo della Polizia? Si volevano evitare illazioni, ma chi aveva portato il necrologio l’aveva subito ritirato e se n’era andato indispettito».
Dalla ricostruzione di Zermo scompare Mario Ciancio. La decisione di non pubblicare è del suo vicedirettore, e a farla eseguire pensa il proto, ossia il capo della tipografia. Compaiono, invece, nuovi particolari, del tutto inventati. Che il necrologio rifiutato alla famiglia Montana parlasse di “alti mandanti” è, infatti, una balla colossale [vedi foto 4]. Ed è proprio su questo dettaglio di fantasia che Zermo costruisce la sua teoria di un attacco al Presidente della Repubblica.
Un po’ più cauta, in tempi assai più recenti, è stata la linea seguita dalla difesa di Ciancio davanti ai giudici chiamati a decidere del sequestro dei beni dell’editore: «Non vi era alcuna volontà di censurare il ricordo della scomparsa del commissario Montana, ma semplicemente si manifestò l’esigenza di uniformare il contenuto di quel necrologio alla forma tipica degli annunci funebri». Si deve anche ricordare, sottolineano gli avvocati, che «in quel periodo storico era in essere un’aperta polemica tra i sindacati di Polizia e l’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro. E concludono: «nessun ruolo ebbe il direttore Mario Ciancio Sanfilippo»: tutta la responsabilità viene addossata al suo vice, Piero Corigliano.
Forse, per sciogliere ogni residuo dubbio su chi fu a rifiutare del necrologio, potrebbe servire rileggere proprio le parole di Mario Ciancio. Non quelle pronunciate da imputato, ma quelle messe a verbale anni prima – esattamente il 21 marzo 1997 – durante il processo per l’omicidio Fava. In quell’occasione, Ciancio non viene interrogato sul necrologio di Montana, ma su un episodio del tutto analogo, che risale al gennaio 1986: il rifiuto opposto alla famiglia Fava di pubblicare un necrologio in cui si parlava dell’uccisione «per mano mafiosa» del direttore dei Siciliani.
All’avvocato Fabio Tita, che nel processo rappresenta come parte civile il giornale «I Siciliani», Ciancio risponde di ricordare benissimo quell’episodio. Ma poi presenta un racconto perfettamente sovrapponibile alla vicenda Montana: identici i protagonisti (il proto, il vicedirettore Corigliano), identico perfino il riferimento alla polemica su Scalfaro. Nel racconto reso da Ciancio nel 1997, però, la responsabilità del rifiuto non viene affatto addossata a Corigliano. Di quest’ultimo, infatti, Ciancio si limita a dire che era semplicemente presente alla conversazione.
AVV. TITA. – Dottore Ciancio, l’attività di controllo di direttore si estende a tutto ciò che viene pubblicato dal giornale?
CIANCIO. – Teoricamente sì.
AVV. TITA. – Quindi ad esempio inserzioni, oroscopo, ove fossero diffamatori riguarderebbero la sua responsabilità?
CIANCIO. – Non ho capito la domanda, scusi.
AVV. TITA. – Sì, dicevo ad esempio, era solo un esempio a titolo di chiarimento, oroscopo, inserzioni, riguarderebbero la sua responsabilità ove fossero diffamatori?
CIANCIO. – Inserzioni sì, l’oroscopo non credo.
AVV. TITA. – Senta, lei ricorda se nell’86, nel 1986 il suo quotidiano rifiutò un necrologio il 5-1-86 di quell’anno?
CIANCIO. – Sì, lo ricordo perfettamente.
AVV. TITA. – Che la famiglia Fava voleva pubblicare?
CIANCIO. – Lo ricordo perfettamente questo episodio.
AVV. TITA. – Perché rifiutò l’addizione “Ucciso per mano mafiosa”?
CIANCIO. – Non abbiamo rifiutato, abbiamo invitato quel signore a correggere quell’addizione perché in quel periodo c’era una polemica con il Ministro degli Interni Scalfaro. Su questo argomento potete sentire il mio condirettore Piero Corigliano, uomo che era presente alla conversazione e che diede la disposizione al proto su questo argomento. Presidente scusi, ho l’impressione che qui si stia facendo tutta una serie di domande che non c’entrano con il processo.
PRESIDENTE (VIRARDI). – No, no, questo tipo di intervento lo lascia a chi… Guardi, lei si limiti soltanto a rispondere, a dire che non ricorda, a dire negativamente come ritiene, sempre secondo verità, gli apprezzamenti lasciamoli a chi compete.
Secondo i giudici che hanno disposto il sequestro dei beni di Ciancio, in ogni caso, la ricostruzione della vicenda Montana fornita dalla difesa di Ciancio non è credibile: «Non si comprende, infatti – scrive il Tribunale – quale fosse la differenza di struttura tra la frase della quale era stata richiesta la pubblicazione e quelle di rito che solitamente vengono apposte ai comuni necrologi, con le quali si esaltano le qualità del defunto o si palesa la forza del ricordo che costui ha lasciato a familiari e conoscenti».
Di conseguenza «l’episodio fornisce importante riscontro a quanto riferito dai collaboranti sulla “protezione mediatica” accordata dal Ciancio Sanfilippo a Cosa Nostra, proprio perché mette in risalto come la linea editoriale del quotidiano fosse quella, evidenziata dai collaboratori di giustizia, di sopire i toni ed evitare risalto indesiderato a fenomeni od avvenimenti che potessero risultare sgraditi agli ambienti malavitosi.
È questo certamente il caso del necrologio del vicequestore Montana», concludono i giudici. Tanto più che «l’allusione agli “anonimi sostenitori” della mafia, non già “gli alti mandanti” indicati in maniera (forse volutamente) inesatta nell’articolo della Sicilia» avrebbe certamente avuto, «proprio perché contenuta in un atto così personale, quale il necrologio in ricordo del sacrificio del congiunto, un risalto ben diverso rispetto ad un semplice articolo di giornale o finanche di un’intervista».
E ci sarebbe, infine, da chiedersi quale fosse, esattamente, quella “forma tipica” degli annunci funebri evocata dalla difesa di Ciancio, e che le famiglie delle vittime della mafia avrebbero così disinvoltamente violato.
Il 18 marzo 1983, due anni prima di Beppe Montana e dieci mesi prima di Pippo Fava, moriva a Ginevra, di morte naturale, Umberto II di Savoia, re d’Italia – l’ultimo – tra il maggio e il giugno del ’46. Il giorno dopo «La Sicilia» pubblicò il seguente necrologio: «L’on. Enzo Trantino, presidente del Fronte nazionale di riscossa monarchica, i dirigenti, gli iscritti e i simpatizzanti abbrunano commossi la bandiera sabauda per la morte in barbaro esilio di Umberto II». La “forma tipica” degli annunci funebri de «La Sicilia», dunque, consente di propagandare senza problemi la riscossa monarchica, tacciando di barbarie la Costituzione che mandava in esilio i Savoia. Ma non consente, invece, di scrivere la parola “mafia” in un necrologio [vedi foto 5].
Il caso Avola (1994)
Giovedì 2 giugno 1994, in prima pagina, «La Sicilia» informa che il pentito Maurizio Avola s’è accusato, in un sol colpo, di avere ucciso Pippo Fava e di avere fatto parte del commando che sparò al generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Quest’ultimo particolare, sottolinea il quotidiano cittadino, non è per nulla credibile: «all’epoca il killer santapaoliano aveva appena ventun anni, e soltanto un anno dopo venne fatto “uomo d’onore”». Conclusione: Avola – proprio per essersi autoaccusato di un delitto che mai avrebbe potuto commettere – potrebbe essere uno dei pentiti infiltrati «per delegittimare l’intero sistema dei collaboratori» di cui, qualche giorno prima, aveva parlato Roberto Maroni, ministro dell’Interno del governo Berlusconi.
La cronaca della vicenda, nelle pagine interne del giornale, è firmata da Salvatore Pernice, corrispondente da Messina. I toni dell’articolo riflettono l’impostazione della prima pagina: Avola ha parlato di Fava e ha parlato del generale dalla Chiesa; non è tuttavia probabile che abbia partecipato alla strage di via Carini; dunque c’è più d’un dubbio che sia un pentito credibile. Il messaggio insomma è chiaro: a questo signore, a conti fatti, è bene non credere.
In realtà Maurizio Avola, ai magistrati, sta dicendo molte cose. Sta ricostruendo le dinamiche criminali del commando che sparò a Fava. Sta anche fornendo elementi per incriminare per mafia il cavaliere del lavoro Gaetano Graci. E su quest’ultimo, addirittura, le indagini vanno anche oltre: Graci verrà presto iscritto nel registro degli indagati anche nell’inchiesta sull’uccisione di Giuseppe Fava. L’ipotesi che, per la prima volta, i magistrati arrivano a formulare è che possa essere stato mandante dell’omicidio. Un’ipotesi, però, che la giustizia non avrà il tempo per esplorare fino in fondo. Graci morirà infatti nel gennaio del 1996, prima che possa iniziare qualunque processo.
Tra gli episodi che Avola sta raccontando, però, non c’è nulla che riguardi la sua partecipazione alla strage di via Carini. Il pentito non si è mai accusato dell’omicidio del generale dalla Chiesa. Lo ha spiegato in Tv, poco dopo aver letto la falsa notizia su «La Sicilia», il sostituto procuratore catanese Amedeo Bertone. La sua denuncia è chiara: qualcuno ha messo in bocca ad Avola una castroneria, con l’obiettivo di screditarlo. Qualcuno vuole fermare quel pentito. E magari si vuol partire da lui per screditare tutti i pentiti.
«La Sicilia» dispone di almeno un giornalista – Tony Zermo – perfettamente in grado di seguire le vicende di mafia. Che il pezzo su Avola sia affidato a un corrispondente da Messina è perlomeno strano. Anche perché a Messina, delle dichiarazioni di Avola, sono arrivati solo alcuni stralci: quelli che riguardano le accuse rivolte ad alcuni giudici catanesi. Certamente non le dichiarazioni sul delitto Fava.
E Tony Zermo, quando «La Sicilia» mette in pagina quel pezzo, non è sicuramente in vacanza. Tant’è vero che, quello stesso giovedì, il quotidiano «Il Giorno» (di cui Zermo è corrispondente) pubblica un pezzo, a sua firma, praticamente identico a quello della Sicilia
[vedi foto 6].
Uguali le notizie, analoghe le falsità, identico perfino qualche refuso di stampa. Non si tratta di coincidenze: il pezzo comparso sulla Sicilia, a firma di Salvatore Pernice, lo ha scritto in realtà Tony Zermo. Lo confermerà lui stesso quando, diversi anni dopo, sarà sentito come teste al processo per l’uccisione di Giuseppe Fava.
«Quel giorno di cui lei parla – dice infatti Zermo rispondendo all’avvocato Fabio Tita, legale di parte civile per «I Siciliani» – di sera intorno alle 21, arrivò una telefonata di Pernice che è il nostro giudiziarista della redazione di Messina. Mi dice: “Tony, qui c’è un pentito catanese che si chiama Avola […] occupatene tu perché sono tutte vicende catanesi, più o meno, ma non messinesi”. […] Allora scrivo il pezzo dicendo, in buona sostanza, che c’è questo pentito Maurizio Avola che parla del delitto Fava, del delitto dalla Chiesa e dei cinque giudici catanesi […]. Lo stesso pezzo scritto per il giornale a firma del collega che mi aveva dato l’informativa lo diedi esattamente, non so se i refusi furono gli stessi, al “Giorno” di cui sono corrispondente».
Ma, nella redazione del giornale di Ciancio, l’inserimento di questi passaggi sul delitto dalla Chiesa non passa affatto inosservata. Secondo la ricostruzione pubblicata da «I Siciliani» – e mai da nessuno smentita – ne sarebbe anzi nato un mezzo putiferio in redazione. Già quella sera infatti si sapeva perfettamente che le dichiarazioni sul delitto dalla Chiesa non erano mai state fatte. Lo ha spiegato pochi giorni dopo, al quotidiano «L’Unità», il sostituto procuratore Mario Amato: «Abbiamo detto con grande chiarezza che non era assolutamente vero che Avola stesse parlando della vicenda dalla Chiesa. Quello che è avvenuto non è stato casuale. Chi pubblicava sapeva perfettamente, per essere stato avvertito proprio da noi, che si trattava di cose false».
A incaricarsi per «La Sicilia» delle verifiche in Tribunale sarebbe stato il cronista di giudiziaria Salvatore La Rocca. Il quale avrebbe escluso, poi, che quella notizia infondata andasse pubblicata. La Rocca, a questo punto, sarebbe venuto a contrasto con Zermo. E il capocronista, Domenico Tempio, lo avrebbe immediatamente “degradato” trasferendolo alle pagine provinciali.
Sui giornali in edicola il 2 giugno, i due articoli di Zermo (uno dei quali, abbiamo visto, è firmato da Salvatore Pernice) sono i soli in cui si sostenga che Avola si sia accusato del delitto dalla Chiesa. «Che Avola abbia parlato dell’uccisione di dalla Chiesa non viene confermato da nessuno, anzi viene smentito» scrive invece nello stesso giorno, correttamente, «La Gazzetta del Sud». Il cronista incaricato (d.c., ovvero il caposervizio di Catania Domenico Calabrò) non se la sente infatti di pubblicare una bufala già smentita dalla Procura. Ed avverte, anzi, che «occorre molta cautela prima di far trapelare una notizia di tale portata».
Ma il giorno dopo il quotidiano «La Sicilia» insiste imperterrito, in prima pagina, a ripetere che il pentito avrebbe parlato anche del generale dalla Chiesa. E «La Gazzetta» fa anche peggio: si scorda le cautele del giorno prima e attribuisce ad Avola (definito ormai «sedicente pentito») le dichiarazioni che lo screditano. Il pezzo, stavolta, non è firmato. Ma il titolo («Cosa nostra inventa i pentiti killer») lascia intendere che il quotidiano messinese – del quale Ciancio, tra l’altro, detiene una partecipazione azionaria – si è ormai allineato sulla versione Zermo [vedi foto 7]
Venerdì mattina, in una conferenza stampa, il procuratore di Catania Gabriele Alicata denuncia la manovra, sottolinea che il pentito è pienamente credibile, torna a smentire che abbia parlato del generale dalla Chiesa, conferma che le dichiarazioni su Fava ci sono e che si inseriscono nella pista già tracciata dalle precedenti indagini. L’articolo di Giuseppe Bonaccorsi, il giovane cronista incaricato da «La Sicilia» di seguire la conferenza, si intitola La delegittimazione è fallita, e dà ampio spazio, stavolta, alle denunce della Procura. Ma nel testo scivola – non è chiaro se per svista dell’autore o, più probabilmente, per mano di chi in redazione ha “passato” il pezzo – l’ennesima, provvidenziale, velenosa inesattezza. Si parla infatti di «clamorose falsità attribuite al pentito sui delitti dalla Chiesa e Fava» [vedi foto 8].
Avola insomma non avrebbe mentito solo su Dalla Chiesa, ma anche su Fava. Neppure Zermo, che continua intanto a pubblicare sul «Giorno», ha il coraggio di firmare un’affermazione così grave e contraria a ciò che da giorni va ripetendo la Procura. Ma ai suoi lettori «La Sicilia» fa arrivare proprio questo messaggio: sul delitto Fava, Avola non è credibile.
Quattro anni dopo, quando si celebrerà il processo “Orsa Maggiore 3”, si avrà conferma che la verità era molto semplice. Avola ha dato un contributo decisivo alle indagini sul delitto Fava. Del delitto dalla Chiesa, invece, non ha mai parlato. Anche un bambino, in cinque minuti, sarebbe arrivato a comprendere il concetto. «La Sicilia», in tre giorni, non ci è riuscita.
I contorni della gestione giornalistica del caso Avola non passano inosservati. Cronaca di un depistaggio, titolano «I Siciliani» nell’edizione straordinaria che esce pochi giorni dopo la campagna contro il pentito. Il numero speciale porta in copertina la foto di Pippo Fava e, nel titolo, un solo nome: quello del cavaliere Graci. Il quotidiano «La Sicilia», come di consueto, si allinea dietro Zermo. L’ordine è di sopire e di troncare, e l’assemblea dei redattori lo esegue diligentemente, pubblicando un comunicato in cui «respinge con la massima fermezza l’accusa, l’insinuazione o il semplice sospetto di prestarsi a un non meglio precisato tentativo di depistaggio delle indagini sull’omicidio di Giuseppe Fava e di delegittimazione dei collaboratori di giustizia e del loro ruolo». In calce al comunicato dell’assemblea, quattro righe che arrivano direttamente da Mario Ciancio: «La direzione de «La Sicilia» fa propria la presa di posizione dei redattori e respinge indignata il sospetto, qualunque ne sia la provenienza, sull’impegno del giornale e sulla trasparenza dei contenuti».
Non tutti, però, obbediscono all’ordine. Tra i giornalisti che lavorano per il gruppo Ciancio si registra una voce pubblica di dissenso. Una sola, ma dignitosa e nettissima. La si leggerà sul numero de «I Siciliani» di luglio ’94. Che apre così la rubrica delle lettere inviate alla redazione: «Non essendo d’accordo con il documento espresso dall’assemblea dei redattori de «La Sicilia» sulla gestione della vicenda del pentito Maurizio Avola, documento che ignora diritti calpestati di alcuni colleghi e non invita a fare l’indispensabile chiarezza su una vicenda troppo ricca di punti oscuri, credo opportuno manifestare la mia personale solidarietà ai giudici ed a quanti si battono davvero per la ricerca della verità». Firmato Enrico Escher, giornalista, Catania. A riprova che, anche sotto cattivi prìncipi, c’è sempre modo di serbarsi buoni cittadini.
Epilogo in Assise (1996/97)
È il 16 luglio 1996 quando Gaetano Zermo detto Tony compare davanti alla Corte d’Assise di Catania, nell’aula bunker di Bicocca, per essere sentito come testimone nel processo sull’omicidio Fava. L’interrogatorio dura oltre un’ora e dice poco di utile, in definitiva, sul contesto in cui maturò l’omicidio. Alla fine dell’udienza, anzi, il Pm Bertone sottolineerà che «un problema di valutazione dell’attendibilità del teste Tony Zermo si dovrà porre». Dice molto, però, l’interrogatorio, a proposito del quotidiano «La Sicilia» e della sua firma di punta, quella cui vengono affidati i più delicati servizi di mafia. E dice parecchio anche sul modo in cui «La Sicilia» ha raccontato il delitto Fava, caso Avola compreso.
La prima parte dell’interrogatorio verte sui rapporti di Zermo con Pippo Fava e sulla vicenda del «Giornale del Sud»: dall’assunzione di Fava fino al suo licenziamento, voluto dal cavaliere del lavoro Gaetano Graci e causato dall’inopportuna attenzione dei “carusi” di Fava alla guerra di mafia in corso a Catania. Zermo, però, riferisce al Tribunale una versione diversa. Una versione appresa appena pochi minuti prima di entrare in aula, nella saletta in cui i testimoni aspettano di essere sentiti, chiacchierando amabilmente con uno degli ex amministratori del «Giornale del Sud».
ZERMO. […] ho saputo che qualcuno si lamentava del deficit del giornale, per cui mi dicono che il motivo della loro rottura non fosse l’attività giornalistica di Fava, ma la pesantezza dei bilanci.
P.M. (dott. BERTONE) Questo chi glie l’ha detto?
ZERMO. Questo me l’ha detto, mentre eravamo nella saletta dei testimoni, Domenico Lo Turco che era uno… credo che sia amministratore delegato.
P.M. Quindi mi sembra di capire che lei come giornalista ha saputo della causa del distacco tra Fava e il «Giornale del Sud» soltanto stamattina parlando con Lo Turco?
ZERMO. Sì, perché non m’interessava; sapevo che andavano male…
P.M. Dico come giornalista, lasciamo stare come osservatore della realtà catanese.
ZERMO. Guardi, sapevo che andavano male, che c’era pesantezza di bilanci, che le cose non funzionavano, che c’era crisi di rapporti anche tra… sempre per questione di soldi, mi pare… tra Pippo Fava ed il gruppo editoriale e quindi si è arrivati a una chiusura.
P.M. Dico, dottore, dico sul piano professionale, sul piano delle scelte del giornale, sul piano del contenuto degli articoli, non le risulta che ci siano state mai censure o pressioni da parte della proprietà?
ZERMO. Questo bisogna chiederlo a chi stava dentro quel giornale. Da parte nostra non…
P.M. Lei non dimentichi, e certamente non può dimenticare, che è un giornalista, quindi è un osservatore di ciò che avviene!
ZERMO. Sì, ma nemmeno per sentito dire, a me interessava soltanto la sorte di Pippo Fava perché ero amico suo, gli altri non li conoscevo perché erano ragazzini all’epoca. Pippo, sapevo che aveva avuto sia gli anni necessari dal «Giornale del Sud», per completare gli anni di contribuzione, sia la sua relativa liquidazione, e quindi lui era a posto, a me tutto il resto non interessava; di un giornale che nasce e muore ce n’è… I diari nascono e muoiono, e non ne seguo l’evoluzione.
Nel corso della sua deposizione, Zermo ha modo di esporre le sue teorie sulla mafia a Catania. Teorie che sembrano arrivare dall’inizio degli anni ’80, da quando ancora erano in pochi a conoscere il nome di Nitto Santapaola. Ma che Zermo, a dispetto della messe imponente di smentite ricevute dalla realtà, fa proprie e ribadisce, ancora, nell’estate del 1996.
ZERMO. La mia tesi qual è? Che a Catania mafia mafia, Cosa nostra doc non c’è. A Catania c’è la grande criminalità, grande, ma che abbia un codice d’onore, come quello di Cosa nostra palermitana no! Perché qui non esistono i Liggio, qui non esistono i Riina. Ci sono delle controfigure, dei cooptati momentanei, di grande spessore, stiamo attenti, ma non hanno un codice d’onore e una tradizione secolare…
Sono teorie, quelle di Zermo, che gli vengono da un preciso “insegnamento”. Un insegnamento che il giornalista racconta di avere ricevuto a Napoli, durante un processo di mafia, da tre killer delle carceri catanesi.
ZERMO. Noi applichiamo l’etichetta mafia a tutto; secondo me è un po’ sbagliato, perché io ho un insegnamento: al processo Tortora per associazione mafiosa a Napoli c’erano tre catanesi, killers delle carceri, Andraus, Nino Faro e Marano. Andai a parlare con loro, dietro le sbarre. Loro erano accusati di associazione camorristica e mi dissero: «Ma quale camorra, ma quale mafia, noi catanesi siamo». Cioè, da allora mi è rimasta questa etichetta qua, secondo cui Catania soffre di un’enorme, pericolosissima criminalità, perché non è nemmeno regolamentata bene, non ha un codice di comportamento, ma che chiamarla Cosa nostra mi pare un po’ fuori posto.
La difesa di parte civile, in aula, è rappresentata da due avvocati: Vincenzo Scudieri (per la famiglia Fava) e Fabio Tita (per «I Siciliani»). Ed è quest’ultimo a interrogare Zermo sul depistaggio del quotidiano «La Sicilia» in relazione alle dichiarazioni di Maurizio Avola. Un interrogatorio interrotto più volte dalle opposizioni degli difensori degli imputati. Ma che conferma tutti i punti oscuri del depistaggio a suo tempo denunciato su «I Siciliani».
AVV. TITA. Lei conosce la genesi di questo processo nel quale lei oggi è testimone?
ZERMO. Cos’è, il delitto Fava, no?
AVV. TITA. Sì.
ZERMO. Per la morte di Pippo Fava.
AVV. TITA. Sì, sicuramente, voglio dire di questo nuovo corso del processo, diciamo, questo…
ZERMO. No, per la verità non l’ho seguito.
AVV. TITA. Non se ne è mai occupato nel suo lavoro?
ZERMO. No, perché seguo tante altre cose; ormai il povero Pippo è morto da più di dieci anni.
AVV. TITA. Lei ovviamente legge il quotidiano «La Sicilia»?
ZERMO. Sì.
AVV. TITA. È a conoscenza del fatto che il 2 giugno del ‘94 è uscito un articolo a firma Salvatore Pernice, che è un vostro corrispondente da Messina, che riguardava le dichiarazioni del cosiddetto collaboratore di giustizia…
ZERMO. Ho capito cosa vuole dire, se vuole le rispondo subito.
AVV. TITA. Lei deve rispondere alla domanda: le risulta?
ZERMO. Sì, certo.
AVV. TITA. Le risulta che nella stessa data lei pubblicò un articolo identico sul giornale «Il Giorno»?
ZERMO. Sì, di cui sono corrispondente, certo.
AVV. TITA. Può spiegarmi come mai su una vicenda che riguardava Catania ebbe a scrivere il corrispondente da Messina?
ZERMO. Vuole spiegata tutta la vicenda?
AVV. TITA. Sì, vorrei capire come mai questi due articoli presentino gli stessi refusi di stampa. Sono identici, presentano due firme, però, differenti.
ZERMO. Quel giorno di cui lei parla, di sera intorno alle 21, arrivò una telefonata di Pernice che è il nostro giudiziarista della redazione di Messina. Mi dice: «Tony, qui c’è un pentito catanese che si chiama Avola che parla del delitto Fava, del delitto dalla Chiesa e di cinque giudici catanesi che sarebbero collusi», e mi fa i nomi. Dice: «Io non so altro, occupatene tu perché sono tutte vicende catanesi, più o meno, ma non messinesi». «Va bene, ciao Salvatore». Mi rivolgo al collega La Rocca che segue la giudiziaria per noi, dico: «Totò, chi sono questi?». Allora dice: «Avola è un killer del clan Santapaola». Poi: «Ti puoi informare su quello che dice? Vedi, telefona a qualcuno se sa qualcosa, eccetera». Dopo un quarto d’ora viene, ripeto sono intorno alle 21 e 30, quindi un orario un po’ di crisi come tempo, mi dice: «Guarda, per quanto riguarda dalla Chiesa non ci siamo perché all’epoca era troppo ragazzo Avola per potere partecipare o dire delle cose». «Va bene», e se ne va, non completiamo nemmeno il discorso, perché era ripeto tardi. Aggiungo che dei cinque nomi fattimi dal collega…
AVV. TITA. In che giorno siamo?
ZERMO. Non lo so, ricordo il fatto, non ricordo il giorno.
AVV. TITA. Diciamo l’1 giugno, dottore Zermo?
ZERMO. Non lo so se era l’1 giugno; allora, mi aveva fatto i nomi di cinque giudici catanesi che sarebbero stati collusi, alcuni di questi giudici io li conosco personalmente e ci metterei la mano sul fuoco. Ricordo che una settimana prima dal Viminale…
AVV. TITA. La mano sul fuoco per che cosa?
ZERMO. Sulla loro onestà, quindi queste accuse per quanto riguarda alcuni non… Poi ricordo che una settimana prima dal Viminale era partito un allarme. Dice: «State attenti che la mafia sta infiltrando dei pentiti per depistare le indagini e per destabilizzare i pentiti stessi». Allora scrivo il pezzo dicendo, in buona sostanza, che c’è questo pentito Maurizio Avola che parla del delitto Fava, del delitto dalla Chiesa e dei cinque giudici catanesi; che per quanto riguarda dalla Chiesa, probabilmente, dice delle cose non approfondibili, non accertabili comunque dato l’orario, e per quanto riguarda dei giudici catanesi c’è da pigliare con una certa cautela queste cose, anche perché c’è stato di recente scritto un allarme lanciato dal Viminale per eccetera eccetera… quindi sono dichiarazioni esplosive ma che conviene guardare con molta attenzione. Lo stesso pezzo scritto per il giornale a firma del collega che mi aveva dato l’informativa lo diedi esattamente, non so se i refusi furono gli stessi, al «Giorno» di cui sono corrispondente. Quindi nessun problema, e mi sono trovato un po’ a disagio quando l’indomani il sostituto procuratore Mario Amato, credo in una conferenza stampa eccetera, ha tirato fuori questa cosa dicendo che il giornale «La Sicilia» destabilizzava o delegittimava il pentito Maurizio Avola, che mi è sembrato, onestamente, eccessivo, perché non avevamo alcun motivo di delegittimare Maurizio Avola che io non conoscevo nemmeno, e non c’era nessun motivo di lanciare questi alti lai. Comunque abbiamo riportato la… io capisco la posizione del giudice Amato, che sulla credibilità di Maurizio Avola, la cui credibilità è stata dimostrata, e che io stesso ho potuto constatare in alcune udienze tenute mi pare a Bologna… insomma la vicenda è stata questa. Poi abbiamo dato atto che Maurizio Avola è un… io ho spiegato come è andata la vicenda: perché il Giorno ha pubblicato, perché ho detto: «State attenti che certe rivelazioni vanno prese con i dovuti riscontri».
AVV. TITA. Le risulta che la «Gazzetta del Sud» di Messina, già il 2 giugno, ebbe modo di riportare la notizia, ma di smentire il fatto che Avola si fosse accusato dell’omicidio dalla Chiesa?
[…]
ZERMO. Non leggo la «Gazzetta del Sud».
AVV. TITA. Lei poc’anzi mi ha precisato che lei vede le emittenti, legge i giornali. Allora, il 2 giugno, cioè il giorno in cui il suo articolo si pubblica, redatto il giorno prima, vi è una conferenza stampa… anzi va in onda una intervista da parte di un Pubblico Ministero della Procura che smentisce le dichiarazioni pubblicate dalla Sicilia quel giorno. Le risulta questo?
ZERMO. Sì.
AVV. TITA. Allora com’è possibile, mi spieghi, che l’indomani, cioè il 3 (quindi articolo immagino scritto il giorno prima, il 2), sul Giorno, si insiste ancora sulla attribuzione autoscreditante, diciamo così, del delitto dalla Chiesa da parte di Avola?
[…]
ZERMO. Rispondo: ho scritto perché ancora non era stato accertato se parlava di dalla Chiesa in effetti o no, era una cosa in itinere, ancora abbastanza fumosa, può essere stato anche un errore giornalistico, ogni tanto può capitare che potete sbagliare, no?
AVV. TITA. Lei legge il «Giornale di Sicilia»?
ZERMO. Raramente.
AVV. TITA. Il «Giornale di Sicilia» già quel giorno smentisce queste dichiarazioni.
[…]
AVV. TITA. Le risulta che «La Sicilia», giorno 3 giugno pubblica un articolo a firma R.S. nel quale si continuano ad accumulare i due omicidi, con Avola come autore delle dichiarazioni?
ZERMO. Non mi ricordo.
AVV. TITA. Lei sa chi si occupò di seguire la conferenza stampa che la Procura di Catania, nella persona del dottor Alicata e degli altri sostituti, fece il 3 giugno?
ZERMO. No, io le ricordo che faccio l’inviato.
AVV. TITA. Sì, però mi ha detto prima che legge i giornali, si informa, vede le emittenti private!
ZERMO. Sì, ma non lo seguo con particolare…
AVV. TITA. Vive a Catania, aveva scritto poc’anzi dei pezzi giorni prima, sullo stesso argomento, non credo che abbia abbandonato improvvisamente questo argomento di cui si era occupato!
ZERMO. Lei sa quanti articoli scrivo al giorno io?
AVV. TITA. Immagino tanti, però questi sono importanti, dottore Zermo.
ZERMO. Per lei!
AVV. TITA. No, credo anche per lei, dottore Zermo! Le risulta un articolo pubblicato il 4 giugno sulla Sicilia a firma di G. Bonaccorsi che parla di clamorose falsità attribuite al pentito sui delitti Fava e dalla Chiesa? Cioè si inverte ora il meccanismo per cui Avola avrebbe detto falsità? Ora… per entrambi gli omicidi, anche quello Fava?
ZERMO. No.
[…}
AVV. TITA. Le risulta che il primo giugno del ’94, fino che il giornale andasse in stampa… il suo giornale La Sicilia, vi furono dei contrasti circa la pubblicazione di quell’articolo? Quello a firma Salvatore Pernice per intenderci.
ZERMO. No.
AVV. TITA. Lei conosce il dottor Salvatore La Rocca?
ZERMO. Certo.
AVV. TITA. Chi è?
ZERMO. Il nostro collega che si occupa di giudiziaria.
AVV. TITA. Il dottore La Rocca le disse con chi aveva verificato l’attendibilità della notizia o se l’aveva fatto, se aveva esercitato questo doveroso compito?
ZERMO. No, immagino che abbia chiamato qualcuno degli “addetti ai lavori” e che gli abbia dato un’informazione, ma dico, mi sembra ovvio questo, avrà chiamato qualche…
AVV. TITA. E da questi informatori…?
ZERMO. No, no lui si è affacciato…
PRESIDENTE (VIRARDI). Scusi avvocato Tita, il teste ha risposto no.
AVV. TITA. Lei poi successivamente non ha identificato questo informatore con qualcuno?
ZERMO. Non gliel’ho nemmeno chiesto. Io non chiedo le fonti ai miei colleghi, né dico le mie fonti ai miei colleghi.
AVV. TITA. Ammetterà che la notizia è una notizia molto importante!
ZERMO. Ma…
PRESIDENTE (VIRARDI). Altra domanda avvocato Tita, se ne ha.
[…]
AVV. TITA. Lei non ricorda quindi di un… diciamo così, di un pentito ante litteram di nome Luciano Grasso? Parliamo del 18 luglio ’84.
ZERMO. No.
Sul caso Avola, dopo la parte civile, si soffermano anche gli avvocati della difesa. E Zermo cade di nuovo in contraddizione nel ricostruire la sua telefonata con Pernice.
AVV. PASSANISI. Lei ha riferito di una telefonata di un collega di Messina di cui non ricordo il nome.
ZERMO. Sì, Salvatore Pernice.
AVV. PASSANISI. Che le diede questa notizia?
ZERMO. Sì, dice: «Non so altro».
AVV. PASSANISI. In quella occasione il Salvatore Pernice le disse come aveva appreso questa notizia?
ZERMO. Dagli ambienti giudiziari che lui frequentava… Immagino, non gliel’ho chiesto.
PRESIDENTE (VIRARDI). Deve essere più preciso lei però, per una risposta di questo genere! Si rende conto che non è una correzione, ma è una contraddizione con quanto affermato un momento prima! Cerchi di essere più attento.
ZERMO. Sono molto disattento, purtroppo.
Al termine dell’interrogatorio è il PM Amedeo Bertone a trarre le conclusioni sull’attendibilità del teste Tony Zermo:
P.M. Certamente un problema, io non voglio anticipare un tema che sarà affrontato in altre occasioni, certamente un problema di valutazione dell’attendibilità del teste Tony Zermo si dovrà porre. E si dovrà porre nella misura in cui abbiamo appreso che un inviato del quotidiano «La Sicilia» abbia appreso soltanto da pettegolezzi di corridoio prima di entrare nell’aula di giustizia… di avere appreso certe notizie sui rapporti tra il defunto Giuseppe Fava e la proprietà del «Giornale del Sud». È chiaro che in quell’ottica, se un giornalista, un osservatore attento, una persona che dovrebbe sapere di tutto, leggere di tutto, per essere informato e soprattutto per informare la città, viene informato soltanto un attimo prima di entrare in aula, niente di meno da Lo Turco, quello stesso Lo Turco fotografato assieme a Benedetto Santapaola in una foto che è agli atti di questo processo, allora è certo che un problema di attendibilità del teste si pone!
Il dottor Bertone, nel suo intervento, commette una piccola inesattezza, che correggerà lui stesso nell’udienza successiva: l’estemporaneo informatore di Zermo non è infatti il Lo Turco fotografato con Santapaola (e cioè Salvatore Lo Turco, deputato regionale socialdemocratico che fu anche membro della Commisione Antimafia all’Ars), bensì il fratello Domenico. Precisazione doverosa, ma che non cambia in nulla la sostanza della cose. E nulla toglie allo spaccato di verità che quest’interrogatorio permette di osservare: uno spaccato che – quasi come in un pezzo del teatro di Pippo Fava – unisce l’impietosa esattezza della verità giudiziaria a una irresistibile dimensione teatrale. Come si potrà apprezzare ascoltando integralmente l’interrogatorio.
Molto più cauto di Zermo, all’udienza del 21 marzo 1997, Mario Ciancio si è trincerato dietro l’inscalfibile muro dei “non so” e dei “non ricordo”. Fino a fornire di se stesso – quando la difesa di parte civile gli chiedeva di rispondere sui casi Asciolla e Zermo – un’immagine inedita ed eloquente: quello di un direttore di giornale che non legge mai i giornali. Nemmeno il suo.
AVV. TITA. – Nel luglio dell’84 lei si trovava presso il suo giornale?
CIANCIO. – Come faccio a ricordarmelo, non lo so; luglio dell’84, sono passati 13 anni.
AVV. TITA. – In quel periodo chi era che si occupava di cronaca giudiziaria, dottore Ciancio?
CIANCIO. – Credo Asciolla, credo Asciolla.
[…]
AVV. TITA. – Lei ricorda un articolo pubblicato, appunto, a firma Asciolla, che riguardava le rivelazioni di un pentito sull’omicidio Fava, di nome Grasso?
CIANCIO. – No, in particolare no, so che ci sono state polemiche, perché poi ricordo che su questa storia di Asciolla si scrisse in seguito, ma io non leggo la cronaca nera del mio giornale; affermazione strana sulla bocca di un direttore, ma è la verità.
AVV. TITA. – Lei quindi non ricorda di questo episodio che ebbe un certo clamore al tempo proprio perché…?
CIANCIO. – Lo ebbe dopo la pubblicazione.
AVV. TITA. – Direi che la pubblicazione fu quanto meno intempestiva, perché fu lo stesso giorno in cui questo Grasso doveva essere sentito nel carcere di Belluno dal Giudice che doveva interrogarlo?
CIANCIO. – No, questi particolari non li ricordo.
AVV. TITA. – Lei non ricorda di essere stato anche imputato, ritengo, di un processo proprio per queste rivelazioni, in segreto d’ufficio?
CIANCIO. – Imputato?
AVV. TITA. – Sì, insieme all’Asciolla?
CIANCIO. – Può darsi, non…, comunque non ho mai attribuito, devo essere preciso, non ho mai attribuito nessuna importanza perché io in quel caso ero imputato solo come direttore responsabile del giornale e siccome, le ripeto, non seguivo queste cose, era Asciolla che essendo un cronista di assoluta capacità, quindi Asciolla faceva il suo mestiere facendo gli scoop o facendo gli articoli quando aveva le notizie.
AVV. TITA. – Ecco. L’Asciolla da chi è che apprese, se lei lo ricorda, di questa esistenza…?
CIANCIO.- Assolutamente no.
AVV. TITA. – Di un collaboratore?
CIANCIO. – Assolutamente no, come faccio a sapere chi dava le notizie all’Asciolla.
AVV. TITA. – Immagino, perché ci fu una vicenda successiva, che venne informato come direttore? È un fatto delicato quello. Si trattava di un pentito … che riferiva sull’omicidio, avrebbe riferito anzi, secondo quello che è scritto sul suo giornale, dell’omicidio Fava?
CIANCIO. – Le ripeto che io questo particolare così preciso non lo ricordo, ricordo che ci fu allora qualcosa con Asciolla su polemiche, ma Asciolla è stato sempre pieno di polemiche, non…
AVV. TITA. – Lei ha detto di conoscere bene l’Asciolla. Ricorda se l’ Asciolla era in rapporti di amicizia con l’allora Procuratore aggiunto Di Natale?
CIANCIO. – L’ho letto sui giornali. Suppongo di sì, che tutti i giornalisti devono essere in ottimi rapporti con i magistrati, questo è un principio di fondo.
AVV. TITA. – Senta, quindi di questo articolo non ha assolutamente ricordo delle polemiche successive?
CIANCIO. – Completamente no. Le ripeto, ricordo di avere letto successivamente queste polemiche, ma il fatto mi ha lasciato indifferente.
AVV. TITA. – Lei poc’anzi rispondendo alla mia domanda quando le chiedevo, non senza motivo, se segue la concorrenza, ricorda di un comunicato dell’emittente Telecolor di quello stesso giorno, la sera, che stigmatizzava l’episodio…?
CIANCIO. – No, completamente no.
AVV. TITA. – Indicando come preoccupante una rivelazione di questo tipo in quel momento?
CIANCIO. – Completamente no.
AVV. TITA. – Lei quindi su quel pezzo non ha esercitato il controllo?
CIANCIO. – Ma io non lo esercito; su tutte queste cose lei crede che io possa esercitare il controllo su quello che scrive il mio cronista di giudiziaria oggi?
[…]
AVV. TITA. – Direttore, lei sa come si è giunti alla nuova fase, diciamo, delle indagini e quindi a questo processo che oggi si celebra?
CIANCIO. – No, questo in particolare no, non lo so, so che questo processo è aperto da sempre.
AVV. TITA. – Lei non sa che vi sono state delle rivelazioni 10 anni dopo, esattamente 10 anni dopo l’84?
CIANCIO. – Io leggo i giornali e basta, di questa cosa so solo quello che hanno stampato i giornali.
AVV. TITA. – Lei poc’anzi quando le ho chiesto dove fosse nel luglio ’84 ha manifestato disappunto, perché in effetti 12 anni fa è difficile ricordare. Nel giugno del ’94 dove si trovava?
CIANCIO. – Non lo so, io sono uno che sta due giorni la settimana a Roma, una volta a Milano e così via, non glielo so dire dove sono, se prendo l’agenda glielo dico.
AVV. TITA. – Su queste nuove rivelazioni che vi furono sull’omicidio Fava negli ultimi anni, parlo del ‘93, ‘94, lei ricorda il taglio giornalistico, il risalto che ha dato il suo quotidiano?
CIANCIO. – Ricordo che il mio quotidiano ha dato il massimo dei risalti, questo sì, come sempre, non riesco a vedere lei cosa intende che io possa dirle. Io le ho, in principio, le ho detto: tutto questo che noi abbiamo fatto l’abbiamo fatto con spirito di assoluta verità giornalistica, punto e stop, adesso non ricordo se i titoli erano a 5 colonne, a 6 o a 4, ma credo di aver dato il massimo risalto.
AVV. TITA. – Lei ricorda se il 2 giugno del ’94 venne pubblicato sull’argomento un articolo a firma di un suo redattore, tale Pernice Salvatore?
CIANCIO. – Pernice Salvatore non è un mio redattore, forse uno di Messina. Pernice?
AVV. TITA. – Esattamente?
CIANCIO. – È uno di Messina; no, non lo ricordo completamente, non conosco neanche Pernice, credo di averlo visto una volta o due volte in vita mia.
AVV. TITA. – Senta, come mai su un argomento così importante che riguardava Catania, l’omicidio Fava, si trattava…
CIANCIO. – Quale, quale, scusi?
AVV. TITA. – Dicevo, come mai per un argomento così importante, si trattava dell’omicidio Fava, quindi un omicidio, diciamo, eccellente, con linguaggio giornalistico catanese, scriveva Pernice che era un redattore, di cui lei non ricorda neanche di nome, di Messina, quel giorno?
CIANCIO. – Non lo so, probabilmente perché era qualche notizia che veniva da Messina.
AVV. TITA. – Lei Tony Zermo lo conosce?
CIANCIO. – Certo, è un mio amico dai tempi del collegio, dal Leonardo da Vinci.
AVV. TITA. – Avete fatto le stesse esperienze giornalistiche?
CIANCIO. – No, lui è molto bravo, io non faccio il giornalista come Tony Zermo.
AVV. TITA. – Senta, lei ricorda se Tony Zermo quello stesso giorno pubblicò un articolo sul giornale «Il Giorno» di Milano?
CIANCIO. – Completamente no.
AVV. TITA. – E per quanto riguarda quello di Catania, lei sa chi verificò la fondatezza delle notizie pubblicate dal suo quotidiano?
CIANCIO. – No, io le ripeto che tutte queste cose sulle polemiche del giorno prima, del giorno dopo, ecc., non le seguo, non le seguo.
AVV. TITA. – Questo fu piuttosto eclatante.
CIANCIO. – Lei può chiedere a 50 redattori quale è la situazione al giornale, quindi…
La smemoratezza di Ciancio, durante l’interrogatorio, appare inscalfibile, definitiva, enciclopedica. Eppure, sulla vicenda Avola, Ciancio mostrerà di ricordare un particolare molto importante: i contrasti tra Zermo e La Rocca sulla pubblicazione della falsa attribuzione ad Avola delle dichiarazioni sul generale dalla Chiesa. Contrasti dei quali Zermo aveva detto di non ricordare nulla, ma di cui Ciancio, incalzato dalla parte civile, riferisce dettagli insolitamente precisi.
AVV. TITA. – Io ho già chiesto proprio a Tony Zermo non in quest’aula, nell’altra aula, adesso chiedo a lei che è il direttore di quel quotidiano. Lei non ha ricordo se la sera prima della pubblicazione di quell’articolo vi furono dei contrasti in redazione per la pubblicazione di quell’articolo?
CIANCIO. – Sì, questo me lo ricordo, questo me lo ricordo; ricordo che ci furono dei problemi perché un redattore sosteneva una cosa, un altro ne sosteneva un’altra.
AVV. TITA. – Lei ricorda se qualcuno di questi due venne poi trasferito dalla cronaca giudiziaria?
CIANCIO. – Nessuno fu mai trasferito dalla cronaca giudiziaria, trasferito, insisto sulla parola trasferito.
AVV. TITA. – Diciamo, dislocato mi suggerisce il collega?
CIANCIO. – No, credo che ci siano stati 2 giorni o 3 giorni di, come dire, virgolette soprappensiero, di meditazione, di approfondimento. Comunque, queste sono cose che segue il mio capo redattore, non le seguo io.
AVV. TITA. – Il titolo dell’articolo era: Avola accusa 5 giudici e il sottotitolo: E dice di essere l’autore degli omicidi Dalla Chiesa e Fava, ma gli inquirenti nutrono molti dubbi sulla sua credibilità. Lei ricorda meglio adesso, direttore?
CIANCIO. – Io le dico che non ricordo l’articolo, quindi non posso ricordare il titolo.
AVV. TITA. – L’articolo mi pare che […] mettesse dubbi sulla credibilità di questo collaboratore di giustizia…
CIANCIO. – Avvocato, se vuole glielo ripeto…, non li leggo questi articoli, come glielo devo dire.
AVV. TITA. – Le dico questo perché è la stessa «Gazzetta del Sud» di cui lei ha una partecipazione azionaria di minoranza ma rilevante, a firma del suo corrispondente di Catania – quindi la vicenda evidentemente era catanese, non messinese come lei ci ha detto prima – già quel giorno smentiva che Avola avesse mai parlato dell’omicidio Dalla Chiesa come invece nel corpo dell’articolo faceva «La Sicilia». Lei ricorda questo particolare?
CIANCIO. – Avvocato, posso ripeterle sempre la stessa cosa, non ho letto quegli articoli, quindi non posso ricordare niente su queste cose.
AVV. TITA. – Lei non fu avvertito dei problemi che sorsero per la pubblicazione di questo articolo successivamente?
CIANCIO. – L’unica cosa che ho saputo era che c’era stato un diverbio tra due redattori della Sicilia, punto e stop, ed ho pregato il mio capo-redattore di chiarire la cosa e di chiudere la vicenda, ma non sul contenuto, il contenuto per me era indifferente.
AVV. TITA. – Senta, e di reazioni nel mondo giudiziario da parte degli inquirenti lei ricorda quel giorno, i giorni successivi, nell’immediatezza…?
CIANCIO. – So che ci sono state polemiche su queste cose, ma torno a dirle per la centesima volta che non mi interessano, cioè io non le seguo queste cose.
AVV. TITA. – Lei quel 2 giugno non ricorda di aver visto un’intervista televisiva nella quale si smentiva per bocca di un Pubblico Ministero del Tribunale che l’Avola si fosse accusato del delitto Dalla Chiesa?
CIANCIO. – Torno a dirle per la centesima volta che non seguo queste cose e quindi non ho visto l’intervista televisiva alla quale lei allude.
AVV. TITA. – Quindi lei non ricorda se si decise una linea editoriale all’indomani, pubblicata…?
CIANCIO. – La linea editoriale, glielo ripeto per la centesima volta…
AVV. TITA. – Dottore, lei qui è come testimone, quindi anche mille volte.
CIANCIO. – La linea editoriale è quella di fare un giornale di informazione completo, pieno, democratico, aspetti quale era la formula prima, la formula non me la ricordo, quando c’era l’arco costituzionale, ecc. ecc.; cioè noi facciamo un giornale di informazione, non facciamo un giornale politico, non vogliamo né favorire, né sfavorire nessuno, non ci importa niente.
AVV. TITA. – Senta, il 3 giugno sempre del ’94 il «Giornale di Sicilia», nel quale lei ha una partecipazione rilevante…
CIANCIO. – No, irrilevante.
AVV. TITA. – Irrilevante.
CIANCIO. – Me lo hanno anche scritto a proposito di una recente polemica che c’è stata, che io sul «Giornale di Sicilia» non conto nulla, me l’ha scritto il mio collega ed amico Antonio Ardizzone.
AVV. TITA. – Pubblica un articolo, dicevo, «Il Giornale di Sicilia» dal titolo: Catania, i giudici sul pentito. Non ha parlato di Dalla-Chiesa. Lei ricorda questo…?
CIANCIO. – Non lo ricordo completamente, poi il «Giornale di Sicilia» io non è che lo legga ogni mattina, non riesco a leggere «La Sicilia», figuriamoci se leggo «Il Giornale di Sicilia».
AVV. TITA. – Senta, lei ha memoria, rammenta che, il 3 giugno vi fu una conferenza stampa da parte della Procura di Catania con i suoi massimi esponenti proprio per far chiarezza su queste rivelazioni, di cosa si fosse accusato e di cosa non si fosse accusato?
CIANCIO. – Per la centesima volta le rinnovo la mia dichiarazione, non seguo queste polemiche.
AVV. TITA. – Ma riguardavano il suo giornale, è comunque un fatto…?
CIANCIO. – Sì, ma riguardavano il mio giornale per delle cose per le quali io non mi occupo.
AVV. TITA. – E allora posso sapere di cosa si occupa, direttore, del suo giornale?
CIANCIO. – Glielo ho detto, do indirizzi e basta. Io sono il padrone del giornale, non solo il direttore, quindi mi preoccupo di mille cose ma non dei particolari.
AVV. TITA. – Volevo capire se una vicenda così importante […] avesse da parte sua…
CIANCIO. – Ho dato incarico a chi di competenza di chiarire il problema.
AVV. TITA. – Senta, il quotidiano «L’Unità» lo legge, lo sfoglia?
CIANCIO. – No, assolutamente, una volta l’anno.
AVV. TITA. – Quindi non sa che il 5 giugno del ’94 il Dottore Amato, Pubblico Ministero, parlò di una strategia per screditare il pentito Avola da parte di qualcuno?
CIANCIO. – Completamente no.
AVV. TITA. – Senta direttore, noi stiamo celebrando un processo per l’omicidio di un giornalista…
CIANCIO. – Io sono estremamente rammaricato del fatto di non potere essere utile.
AVV. TITA. – Lei facendo questo lavoro così delicato come quello di Fava, ha mai avuto problemi nel fare giornalismo in Sicilia?
CIANCIO. – Non ho capito la domanda, scusi.
AVV. TITA. – Dicevo, lei come giornalista ha mai avuto problemi nel fare giornalismo in Sicilia? In fondo fa lo stesso lavoro che faceva il Fava.
CIANCIO. – Io ho avuto sempre problemi nella mia vita, ne ho avuti tanti, mi hanno messo le bombe, mi hanno tagliato gli alberi in campagna, mi hanno messo le teste di capretto ecc., ecc., ma io sono un uomo… sono un ottimista, io vivo col sorriso sulle labbra, avvocato.
Con il sorriso sulle labbra, probabilmente, Ciancio ha accolto a suo tempo la notizia che la denuncia per favoreggiamento presentata dalla redazione de «I Siciliani» per la gestione del caso Avola non aveva avuto alcun seguito. La vicenda è stata richiamata recentemente, durante il dibattimento del processo a Mario Ciancio, dall’avvocato Goffredo D’Antona che assiste la famiglia Montana, parte civile nel processo.
L’episodio non risulta invece inserito nel procedimento celebrato davanti alla sezione Misure di prevenzione, così come non vi figura neanche il caso Asciolla. La Procura ha infatti deciso di concentrare l’indagine su un numero circoscritto di episodi. Che il Tribunale, in primo grado, ha ritenuto sufficienti a delineare «la “protezione mediatica” accordata dal Ciancio Sanfilippo a Cosa Nostra». Ma che certamente non esauriscono la lunga storia di silenzi e di depistaggi che è possibile leggere sfogliando la collezione de «La Sicilia».
“Egregio direttore” (2008)
«La ringrazio per l’ospitalità che vorrà concedermi sul suo giornale». Si chiude così la lettera di Vincenzo Santapaola indirizzata al direttore del quotidiano La Sicilia, Mario Ciancio Sanfilippo, e pubblicata il 9 ottobre del 2008. Allora Vincenzo Santapaola, figlio del boss Nitto Santapaola, era al centro delle operazioni della magistratura Plutone e Orsa Maggiore 2, ritenuto capomafia catanese e detenuto in regime di 41 bis in un carcere di massima sicurezza.
Mai quella lettera sarebbe potuta uscire dal carcere ed essere pubblicata su un giornale, ma ciò avviene lo stesso. La redazione de «La Sicilia» decide di pubblicarla a pagina 37, nell’inserto di cronaca di Catania, con un titolo su fondo nero: Lettera dal carcere – Santapaola jr: contro di me pregiudizi perché porto un nome pesante. [vedi foto 9]
«Vincenzo Santapaola, 38 anni, il maggiore dei figli di Benedetto Santapaola – scrive «La Sicilia» – ci invia da un carcere del Nord Italia dove si trova al 41 bis, questa lettera». Nessuno scrupolo nell’indicare l’invio della lettera da un regime carcerario la cui ratio è proprio quella di impedire la comunicare con l’esterno, in quanto tale comunicazione potrebbe essere utilizzata per continuare a esercitare il ruolo e il potere mafioso di chi a questo regime è sottoposto.
È lo stesso Vincenzo Santapaola, nella sua lettera a «La Sicilia», a vantare la reclusione in regime di 41 bis:
«Egregio Direttore, mi trovo in un carcere di massima sicurezza, detenuto in regime di 41 bis, proprio quel regime creato per i detenuti considerati i più pericolosi, capaci di dare ordini ad associazioni criminali anche dal carcere; un regime che, anche nel mio caso, è assolutamente ingiustificato, come ingiustificata è la mia detenzione. Ma questo è un altro discorso che, con i miei avvocati, affronto in altre sedi».
E prosegue:
Scrivo al suo giornale interrompendo il mio silenzio, rischiando di essere ulteriormente strumentalizzato, affinché io possa dire la mia «verità». Scrivo a voi per presentarmi personalmente a tutti coloro che hanno avuto modo di conoscermi esclusivamente da ciò che i massmedia dicono di me, identificandomi come un «mafioso», come «delfino», come «erede» di mio padre.
Santapaola esordisce dunque come se, della facoltà di parlare al pubblico da libero cittadino, si fosse privato autonomamente e non per disposizione dei giudici dopo fatti criminali. Ma su questo non c’è nessun commento della redazione de «La Sicilia», che si limita a intervenire nella lettera con una piccola parentesi che indica nomi e cognomi degli avvocati che seguono Vincenzo Santapaola, Francesco e Giuseppe Strano Tagliareni.
Dal 1994 ad oggi ho trascorso 11 anni della mia vita negli istituti penitenziari, non perché io sia un pericoloso criminale o per aver commesso chissà quali reti, ma perché porto un nome «pesante», «discusso», «odioso» e «chiacchierato». Sono stato rimesso in libertà circa tre anni orsono. Nel 2005 sono rimasto vittima di un grave incidente stradale. Ho passato due mesi, successivi all’incidente, in coma; poi altri otto mesi tra ospedali e centri riabilitativi paralizzato dalla vita in giù. Ho subito quattro delicati interventi chirurgici al bacino e altri sei mesi in una sedia a rotelle. Oggi mi reggo in piedi, anche se con non poche difficoltà e con l’aiuto di due stampelle. Tre anni trascorsi a curarmi e non certo a delinquere come oggi si vuol fare credere. Ho sulle spalle 11 anni di carcere…
Dio quanto pesano, soprattutto per chi come me, li ha addosso non per espiare una pena definitiva, ma nella logorante attesa di tempi tecnici del processo penale. Assieme ai miei avvocati ho affrontato innumerevoli battaglie per cercare di dimostrare la mia innocenza, qualcuna l’ho vinta, qualche altra no. Purtroppo lottare contro i pregiudizi è difficile, mi viene da pensare al mitico Don Chisciotte contro i mulini a vento. C’è gente che con pregiudizio mi giudica e mi considera in base a ciò che si è detto e scritto su di me, additandomi come un criminale. C’è gente che crea leggende sul mio conto e sui miei familiari. Ci sono altri che usano il mio nome in modo scellerato per i loro loschi interessi, per vanto, per ignoranza. Questi ultimi sono quelli che più mi danneggiano e che contribuiscono in modo determinante a far sì che il «mito Santapaola» resti sempre in vita mio malgrado.
Oggi mi rivolgo alla vostra cortesia perché purtroppo anche la mia vicenda processuale, per la quale sono ora detenuto, nasce da una situazione alla quale è mia ferma intenzione porre rimedio, sebbene essa sia indipendente dalla mia volontà e dalle mie azioni. Infatti mi trovo indagato perché nel corso di alcuni colloqui, intercettati nel carcere di Catania, un detenuto parla di un tale «Enzuccio » (che l’Autorità giudiziaria ha ritenuto essere la mia persona) e raccomanda a un congiunto di prendere contatto con lui (incidentalmente osservo che, anche a concedere che i due parlino di me, tale incontro, come provato in atti, non è mai avvenuto). Ebbene, purtroppo debbo constatare che il nome che porto è per me (come per mio fratello Francesco) una continua fonte di guai, a causa di persone, che, anche senza conoscermi, anzi nella quasi totalità senza conoscermi, usano e abusano del mio nome e di quello della mia famiglia. E ciò avviene quotidianamente in questa città, che non riesce a dimenticare pagine di cronaca e di storia ormai lontane e chiuse.
Personaggi a me ignoti, per i loro scopi che a me non interessano, continuano a fare il mio nome e a presentare il mio cognome come etichetta, la cui natura non mi appartiene. Oggi con forza e decisione intendo affermare pubblicamente che tali persone, i loro scopi, le loro azioni, sono a me ignoti ed estranei. Non ho, non abbiamo nulla da spartire con chiunque pretenda di usare il nostro nome subdolamente. Chiedo di essere giudicato soltanto per le parole e le azioni che sono a me direttamente conducibili, parole e azioni che non hanno nulla di illecito, perché il mio desiderio è soltanto di essere e di vivere da persona «normale», senza che nessuno si arroghi il diritto di parlare per conto mio.
Sono Vincenzo Santapaola, un uomo che vuole vivere una vita da uomo qualunque, perché nel mio spirito, nel mio intimo, nel mio essere, io sono e mi sento un «uomo qualunque ». Mi perdoni lo sfogo e la ringrazio per l’ospitalità che vorrà concedermi sul suo giornale».
La lettera non passa inosservata. Immediate sono le reazioni istituzionali. L’allora parlamentare Claudio Fava alza la voce: «Il capomafia catanese Vincenzo Santapaola, detenuto in un carcere di massima sicurezza con il regime del 41 bis, ha trovato il modo per aggirare l’isolamento e farsi beffe della giustizia grazie alla disponibilità del quotidiano locale La Sicilia, che oggi ha pubblicato, in bella evidenza, una sua lunghissima lettera dal carcere. Quella lettera entra nel merito di indagini aperte e di testimonianze raccolte dai magistrati e possiede un eclatante carattere intimidatorio: eppure il direttore de La Sicilia, Mario Ciancio, non si è fatto scrupolo di pubblicarla senza una riga di commento. Un atto di subalternità grave, in violazione della legge che per Santapaola, come per il padre Nitto, prescrive l’assoluto isolamento carcerario. Ancor più grave perché si consuma grazie alle cortesie di un giornale siciliano, in una terra che ha già contato otto giornalisti ammazzati dalla mafia: uno di loro, certamente, per opera della famiglia Santapaola».
E interviene il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. «In ordine a quanto apparso sul quotidiano La Sicilia, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunica che sono in corso gli opportuni accertamenti per verificare con quali modalità sia stato possibile che la lettera di una persona detenuta al 41 bis sia stata pubblicata sul quotidiano».
Il 9 ottobre 2008, con un trafiletto a pagina 32, «La Sicilia» riporta “il caso”. «Il Dap indaga sulla lettera di Santapaola Jr». Nell’articolo la Direzione del giornale precisa (non lo aveva fatto contestualmente alla pubblicazione) che la lettera «è stata consegnata a La Sicilia dagli avvocati Francesco e Giuseppe Strano Tagliareni, legali di Vincenzo Santapaola».
Il 12 ottobre 2008 «La Sicilia» torna sulla lettera di Santapaola, a pagina 39. I passaggi ricostruiti dal Dap – Autorizzato dal Gip l’invio della lettera di Santapaola jr. L’articolo, la cui fonte è un lancio di agenzia dell’ANSA, ricostruisce la vicenda così:
La lettera scritta da Vincenzo Santapaola, figlio del boss catanese Nitto, pubblicata giovedì scorso dal quotidiano «La Sicilia », è stata spedita più di un mese fa dal carcere in cui il detenuto si trova. La missiva era indirizzata alla sorella, che vi avrebbe apportato alcune correzioni. La lettera è poi stata consegnata ai legali di Santapaola che l’hanno inoltrata al giornale. Il retroscena – ne ha dato notizia ieri sera l’agenzia Ansa – emerge dall’indagine avviata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che ha ricostruito i vari passaggi dello scritto, la cui pubblicazione ha sollevato numerose polemiche. La lettera di Santapaola era stata bloccata, come da procedura per chi è sottoposto al carcere duro previsto dal 41 bis, da parte dell’ufficio censura del carcere. A «sbloccarla» è stato il gip Laura Benanti, del tribunale di Catania, che ha permesso in questo modo l’uscita dal carcere della lettera inviata alla figlia del capomafia catanese, che è all’ergastolo anche per essere il mandante dell’uccisione del giornalista Giuseppe Fava.
Ma in realtà nessun giudice ha mai autorizzato l’invio della lettera di Vincenzo Santapaola. Il 17 ottobre 2008 «La Sicilia» è costretta a pubblicare a pagina 33 una lettera inviata da Rodolfo Materia, presidente della sezione GIP presso il Tribunale di Catania».
SMENTITA DEL PRESIDENTE FACENTE FUNZIONI DELL’UFFICO GIP DEL TRIBUNALE «Nessun giudice ha autorizzato l’invio della lettera di Santapaola»
Dal dott. Rodolfo Materia, presidente facente funzioni della sezione del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catania, abbiamo ricevuto e pubblichiamo:
«Lo scorso 9 ottobre è stata pubblicata sul quotidiano “La Sicilia” una lettera fatta pervenire dal detenuto Santapaola Vincenzo, sottoposto al regime carcerario speciale di cui all’art. 41 bis O.P. La notizia che di per sé ha creato sconcerto nell’opinione pubblica è diventata ancora più inquietante quando il successivo 12 ottobre è stato pubblicato un altro articolo che spiegava come detta lettera fosse uscita dal carcere. Già il titolo anticipava: “Autorizzato dal Gip l’invio della lettera di Santapaola junior”, seguivano, poi, più specifiche indicazioni con ulteriori precisazioni che “i passaggi (erano stati) ricostruiti dal Dap”, avvalorando, in tal modo la veridicità della notizia. Poiché questa ricostruzione dei fatti non risponde a verità, invito ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa a pubblicare la presente rettifica volta a ripristinare la verità dei fatti. Nessuno dei Magistrati del mio Ufficio, succedutisi nella trattazione del processo a carico di Santapaola Vincenzo, ha mai autorizzato l’invio di qualsiasi missiva del predetto Santapaola, destinata, seppur indirettamente, agli organi di stampa. Pertanto, la notizia così come pubblicata risulta gravemente lesiva della dignità e professionalità dei Magistrati dell’Ufficio Gip di Catania, i quali con tanto senso di responsabilità operano quotidianamente al servizio della Giustizia».
«Nessuno dei Magistrati del mio Ufficio, succedutisi nella trattazione del processo a carico di Santapaola Vincenzo, ha mai autorizzato l’invio di qualsiasi missiva del predetto Santapaola, destinata, seppur indirettamente, agli organi di stampa». Le parole del magistrato smentiscono categoricamente la versione pubblicata da «La Sicilia» e fornita dall’agenzia ANSA. La ricostruzione dei fatti, attribuita al Dap, non risponde a verità.
Il 19 dicembre 2013 Vincenza Nauta, moglie di Vincenzo Santapaola, è sentita quale testimone nell’udienza del processo Iblis sulla mafia catanese.
Mio marito nell’ottobre 2008, attraverso ovviamente gli avvocati, rese pubblico un suo pensiero. Gli avvocati hanno ritenuto utile pubblicarlo sul giornale. Si trattava appunto di una lettera. Una pubblica dissociazione a quello che è l’ambiente malavitoso.
Da lì a un dieci, quindici giorni circa, mi ricordo benissimo ero a casa con mia cugina Rosalba e suonarono al citofono, risposi e chiesi chi era. Mi dissero che c’era posta da firmare per Santapaola Vincenzo. Dissi che stavo per scendere ma dall’altra parte del citofono mi dissero stranamente, “se mi dice che piano è, vengo su io”. Risposi di no, che stavo scendendo e che l’avrei raggiunto. La cosa mi suonò strana perché non mi era mai successa, noi abitiamo al settimo piano. Non mi era mai successo che il postino mi dicesse di venire su. Dissi a mia cugina di affrettarsi perché dovevamo scendere che c’era posta da ritirare. Scendendo, uscii dall’ascensore e c’era un uomo che guardava le cassette della posta, al che uscendo dall’ascensore anticipai mia cugina e a distanza di tre metri dalle cassette della posta dissi “buongiorno, prego”. La persona mi rispose chiedendomi se ero la sorella di Enzo. Risposi che ero la convivente in quanto a quei tempi non eravamo ancora sposati. Mi avvicinai alla persona e lui fece qualche passo e mi disse questo: “Fatici sapiri a Enzo ‘ca nun si permetti di scriviri certi cose ntu giurnali”. Al che la persona andò via. Aveva lo sguardo di una persona molto cattiva. In quel periodo mio marito era detenuto a Opera al 41 bis.
Capii che quella persona era Santo La Causa (esponente di primo piano della mafia catanese) nell’ottobre 2009 quando eravamo a casa, con mio marito a cui erano stati concessi gli arresti domiciliari. Eravamo a pranzo, ci stavamo vedendo i Simpson e improvvisamente hanno dato la notizia, come notizia straordinaria. Hanno dato la notizia che durante un summit avevano arrestato tante persone tra cui proprio Santo La Causa, tra i latitanti più pericolosi ricercati in quel momento. Io riconobbi quell’uomo, come il postino che mi aveva citofonato l’anno prima.
Lo dissi a mio marito che mi chiese infinite volte se ero sicura che fosse lui. Appena comprese che ne ero sicura mi abbracciò forte e si mise a piangere. Mi disse che era una persona malvagia, cattiva e che avevo rischiato molto.
La lettera di Vincenzo Santapaola indirizzata a Mario Ciancio, quale Direttore e pubblicata integralmente senza alcuna nota da La Sicilia è uno degli elementi di dibattimento nel processo a carico di Mario Ciancio per concorso esterno in associazione mafiosa.