RIACE
In Calabria ti danno del voi.
Nelle piccole botteghe, quelle che hanno poco di tutto e la luce sempre bassa e affaticata, ci trovi spesso due o tre sedie impagliate, in genere vicino all’ortofrutta.
Servono a far sedere le persone che chiaccherano, che dicono le cose.
Mamma quante rughe in Calabria.
Vanno via in tanti da qui. Scappano.
Mai, fino ad ora, ho percepito tanto rispetto e delicatezza nel porgersi, fra persone, sia conosciute che sconosciute.
Un misurato educatissimo distacco.
Ma più giri e più vedi che è quasi impossibile avere speranze in questa terra.
Sembra tutto abbandonato, lasciato a se o ad altri.
Riace no.
Mentre scrivo, dal bar di Alessio che ha una storia e la ha solo se la puoi raccontare, passa Capossela, fra i luppini che servono con la birra e un murales di Carlos Atoche.
Qui ci sono quasi riusciti.
Passeggio per le pietre dei vicoli e si vede forte che per un periodo qui ci sono davvero riusciti.
Ho avuto la fortuna di parlare con il padre di Mimmo Lucano, il solito rispetto ma quanta bellezza in più in quei pochi racconti. Parole morbide anche se io ho visto il padre. La figura.
Perché anche il bello qui è da prendere a piccole dosi, così come il brutto.
Finisce.
Vanno tutti via. Scappano.
Però lo sa Dio quanta poesia.
Sulle panchine, bottiglie piene d’acqua, per non far pisciare i gatti.