La storia dei miei calzini
Non so di preciso quando ho smesso di credere a Babbo Natale. Penso che sia avvenuto molto presto. Ricordo solo che ho iniziato ad aiutare mio padre a indossare il costume per fare la sorpresa alle mie cugine più piccole. Con la befana è stato diverso. Ero già un bambino grande e continuavo a lasciare latte e biscotti sullo stretto tavolo della cucina. L’indomani mattina trovavo un biglietto stropicciato, sgrammaticato, scritto con una grafia incerta. Firmato dalla befana. Poi non successe più. Ma è stata ed è ancora magia.
Magico per me come la vita dei miei calzini. Apparivano nuovi nel cassetto della mia stanzetta. Li indossavo e poi li levavo a tarda sera. Li gettavo a terra dal divano e dal letto. La mattina non c’erano già più. Dopo qualche giorno riapparivano profumati nel cassetto. Così come le canottiere, le mutande.
Ho dovuto aspettare di essere grande, di andare a vivere con Fausta, per comprendere il meccanismo di quel trucco: i calzini si raccolgono, si mettono nella cesta della roba sporca. Si compra o si fa in casa il sapone per il bucato. Poi si selezionano per colore e si infilano nella lavatrice assieme a mutande, magliette, felpe, tovaglie. Si seleziona il programma giusto e si avvia il lavaggio. Dopo qualche ora si tirano fuori e si stendono. Una volta asciutti si raccolgono e si portano in camera e chiusi uno dentro l’altro si infilano nel cassetto.
Mio padre si travestiva da Babbo Natale, e con ogni probabilità scriveva la letterina della befana. Mia madre si occupava della magia dei calzini, di stirare le magliette, di comprare il detersivo, di riordinare i vestiti asciutti. Lo faceva di mattina presto, quando ancora dormivo, prima di andare a lavoro.
Me li ricordo gli appostamenti di notte per riuscire a beccare la befana, perché volevo sapere, volevo vedere, volevo avere prova. Che la casa e i miei calzini fossero puliti l’ho invece sempre dato per scontato. Era la mamma. E questo non mi ha mai procurato alcun imbarazzo e nemmeno un po’ di riconoscenza. Per carità le voglio un bene indefinibile ma mai tale sentimento si è intrecciato con ciò che ho sempre considerato scontato, naturale, normale: la cura delle mie cose e della casa. Mai un grazie né un bacio per questo.
L’ho vista tornare a casa esausta dalla giornata di lavoro, l’ho vista lavorare da casa anche nei giorni di riposo, l’ho vista sistemare conti e bollette fino a tarda notte per regolarsi coi soldi. Ma davanti alla tv sul divano ho sempre gettato via i calzini.
E mai un richiamo, un rimprovero, una richiesta d’aiuto. Solo sporadiche lamentele per il disordine.
Anche mia nonna faceva così con mio nonno. Lui seduto in poltrona o nel suo studio. Lei affaccendata in cento cose oltre al lavoro. Cucinare, mettere in ordine, curarsi dei figli e dei nipoti.
Solo mio padre, negli anni che abbiamo vissuto insieme, teneva un atteggiamento diverso. Non ricordo altri nella mia famiglia. Eppure nessuno avrebbe mai rivendicato un comportamento maschilista, anzi. Bastava che per un giorno a settimana cucinasse qualcun altro, bastava per una volta stendere la biancheria, bastava collaborare una volta al mese alla pulizia della casa e la coscienza era a posto e allora poteva essere rivendicata nelle cene con gli amici la grande collaborazione nelle faccende di casa, il grande “aiuto” alla moglie, alla madre.
Sono cresciuto anche io così. In questo contesto. E riconosco l’ipocrisia maschile che si nasconde dietro l’adesione, politicamente corretta, al femminismo. Sancire esplicitamente o implicitamente che ci siano doveri delle donne verso gli uomini (che gli uomini invece non hanno) è il primo tassello del potere maschile sulle donne. Lo stesso potere che poi si trasforma in controllo e in limitazione della libertà. Che diviene discriminazione e poi violenza. Lo stesso potere che infine umilia, mortifica e uccide le donne.
Riconosco la responsabilità di trascinarmi una parte di tali dinamiche anche nel rapporto con la persona che ho sposato. Mentre scrivo batuffoli di pelo dei nostri gatti si inseguono nel corridoio, non ho ancora riordinato la roba pulita nei cassetti, non ho messo a posto la scrivania né passato l’aspirapolvere e troppe volte attendo che sia Fausta a farlo.
Come se il mio tempo fosse più prezioso del suo.
Ho però imparato che i calzini sono affar mio. Che il femminismo è anche pratica quotidiana, che la magia sta nell’amore e che non esiste amore senza libertà, uguaglianza e rispetto.