Il paese degli orchi
Il popolo perbene del terzo reich. O della terza repubblica, se così andrà avanti
Come verremo ricordati, quelli della nostra generazione? Non è una domanda tanto per aria: se fossimo stati invitati a casa del signor Muller a Berlino avremmo avuto il piacere di conoscere una persona educata e perbene, buon padre di famiglia, ottimo lavoratore, con la sua brava Volkswagen, i suoi marmocchi simpatici e la sua famigliola complessivamente felice. Faremmo un giro in centro (traffico ben regolato, molto verde, nessun mendicante) e in genere incontreremmo facce tranquille e soddisfatte di sé. Può darsi che parleremmo di politica: ma fra gente educata, su questo punto, non ci si accalora mai troppo. E poi, la politica, lasciamola a chi la fa di mestiere: noi abbiamo fin troppe cose a cui pensare. Il mutuo, il dentista, il meccanico, la pagella del bambino… Così, sorridendo svagati, si farebbe ora di pranzo: in un locale caratteristico, accogliente e pulito come tutto il resto.
Più tardi, quando sei ritornato nel tempo tuo, ti accorgi che hai fatto visita alla famiglia degli orchi, nella città degli orchi, nel paese degli orchi. I Muller infatti sono una qualunque famiglia berlinese del 1936 e in quanto tale hanno dirette e personali responsabilità – come oggi sappiamo – nello sterminio di milioni e milioni di esseri umani. Personali? Beh, il figlio dei Muller è militare, ma presta servizio nella Wehrmacht, mica nelle Ss. Hans e Annaliste sono regolarmente iscritti, è vero, alla Hitlerjugend e alla Lega delle Ragazze: ma che fanno di male?
Campeggio, raccolta di abiti vecchi e qualche chiacchiera ogni tanto. E tutto è così normale: lo sguardo dei bambini, la risata di Muller, le strade. Non ci sono mendicanti, non c’è gente strana.
Noi tuttavia sappiamo – venendo da un’altra epoca ed essendo dunque osservatori disinteressati – che il mondo del ‘36 sarebbe stato impossibile senza il consenso dei Muller. E dunque non ci sentiamo autorizzati a stringere le mani che ci vengono porte (borghesemente: perché i Muller, l’abbiamo detto, non sono dei fanatici del Partito) per l’addio. Le mani restano là, protese senza risposta a cercare una comprensione, e i visi sfumano mentre noi torniamo nel nostro tempo.
Nel “nostro” mondo, muoiono trentamila bambini al giorno per cause prevedibili e facilmente evitabili. Seicento milioni di bambini sopravvivono con meno di duemila lire al giorno. Ma questi sono numeri, non vogliono dire niente. Il fatto reale è che, se esci di casa e invece di svoltare da una parte svolti dall’altra, ogni due o tre bambini che incontri uno non ha mangiato. Ogni tanto – diciamo ogni tre o quattro minuti – uno di questi bambini che stai guardando attentamente per capirci qualcosa scivola improvvisamente per terra e non si muove più, perché è morto.
E siamo in un sogno didascalico, ancora, dunque del tutto asettico e pulito. Il bambino per terra, nella realtà, evacuerebbe liquidi disgustosi prima e durante il morire. Da una parte, e tuttavia impossibilitato a intervenire, ci sarebbe un altro essere umano per il quale il bambino morente era il centro del mondo, e che in questi istanti sta vivendo l’orrore puro. Ci sarebbero puzza e grida, e rumori casuali. E tutto questo sta avvenendo davvero, in questo preciso istante, e riusciamo a tollerarlo soltanto facendo finta che non sia così.
Ma inganniamo noi stessi. Il mondo vero è quello. Questo – quello di questo monitor – è meno vero di esso.
Mi fermo qui, perché questo è un ragionamento impossibile da portare avanti oltre un certo grado. Ho bisogno – come te, e come tutti – di un certo livello di rimozione, perché altrimenti mi sarebbe difficilissimo vivere normalmente senza diventare asociale.
Ma quelli che verranno dopo di noi – compagni posteri, diceva Majakowskij – non avranno di questi problemi. Loro vorranno semplicemente studiare scientificamente il nostro mondo, freddamente: perché ormai tanto tempo sarà passato.
Studieranno di noi come noi studiamo gli assiro-babilonesi, apprezzando al loro giusto valore tanto gli inni cosmici ad Enkhidu quanto i prigionieri impalati. E, forse, decideranno che siamo stati più o meno la stessa roba che i tedeschi del trentasei.
Parleranno di Olocausto, come noi ne parliamo. Si meraviglieranno grandemente, con aria di sufficienza, per la nostra acquiescenza. “Come hanno fatto a non ribellarsi?” diranno, senza voler sapere di noi altro che questo.