giovedì, Novembre 21, 2024
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Lo sgombero dei rom di Scampia

Quarantotto rom sgomberati dall’auditorium di Scampia, la versione del Comune e quella degli attivisti

Come nel Rashomon di Kurosawa, circolano almeno quattro versioni di quanto accaduto mercoledì 17 aprile nell’auditorium di Scampia, comprese quelle degli opinionisti dell’ultima ora che si sono scatenati sui social.

Archivio disegni NapoliMonitor

La versione del Comune di Napoli 
La versione delle istituzioni, affidata a Roberta Gaeta, l’assessora al welfare del comune di Napoli, è questa: le famiglie rom, quarantotto persone, compreso un neonato – che vivono dal 27 agosto in auditorium a causa di un incendio doloso al campo di Cupa Perillo, che ha distrutto le baracche dove abitavano e tutto quello che possedevano –, in seguito a delibera comunale del 28 dicembre in cui vengono stanziati cinquemila euro a famiglia, una tantum, con cui cercarsi una sistemazione autonoma, devono lasciare l’auditorium e non avere più nulla a pretendere dal Comune in caso di ulteriore emergenza abitativa. L’accettazione del sussidio è avvenuta attraverso la compilazione di un’istanza di ammissione. Potevano presentare istanza di ammissione solo coloro che risultavano in possesso di alcuni requisiti (permesso di soggiorno, carta d’identità, codice fiscale, tessera sanitaria) e che si impegnavano a “garantire l’iscrizione e la frequenza scolastica dei bambini e definire un percorso di accesso ai servizi per l’inclusione attiva”. Il contributo è arrivato, dopo circa quattro mesi di iter burocratico, e le famiglie, come da accordi, devono lasciare lo spazio che li ha accolti per otto mesi. La versione è arricchita da particolari che descrivono l’assessorato e le sue appendici – gli uomini e le donne dell’Ufficio rom e patti di cittadinanza – impegnati in un costante lavoro di accompagnamento delle famiglie in questione. Si sottolinea la volontà pedagogica dell’intervento che vuole favorire l’autonomia delle persone e sottrarle all’assistenzialismo.

Per le quattro famiglie che non avevano i requisiti per il contributo, la proposta è stata il trasferimento presso il centro comunale Grazia Deledda a Soccavo, gestito da un ente della Protezione civile che si barcamena tra una emergenza e l’altra. Nel centro sono presenti famiglie di rom rumeni da oltre quindici anni. L’alternativa: arrangiarsi come meglio ritengono, in ogni caso senza il contributo economico e senza altro supporto istituzionale. Insomma, fare come hanno sempre fatto. Anche in questo caso si è precisato che le famiglie sono state seguite passo dopo passo per ottenere la regolarizzazione necessaria. L’instancabile lavoro di funzionari e assistenti sociali non ha però sortito effetto, la regolarizzazione non è avvenuta e i percorsi avviati non sono stati ritenuti sufficienti per meritarsi il contributo. Le famiglie hanno rifiutato la Deledda, scegliendo di andare per la propria strada. Ciascuno è responsabile delle proprie azioni, il Comune non è più responsabile di questi nuclei familiari. Ma dove vanno le famiglie? A questa domanda nessuno può rispondere con certezza, se non i diretti interessati.

La non-scelta dei rom: lasciare il quartiere
Secondo un’altra versione, però, nei mesi di attesa dalla compilazione dell’istanza all’erogazione del contributo, nessuno ha visto i funzionari comunali se non per consegnare e poi ricevere l’istanza compilata, infine nei giorni della liberazione dell’auditorium; nessuno li ha visti affiancare le famiglie nel difficile iter di individuazione di una casa da affittare, nessuno si è accertato che i nuclei più fragili fossero indirizzati verso situazioni non ricattatorie, nessuno ha accompagnato il processo accertandosi che l’erogazione del contributo, seppur minimo, fosse finalizzato alla riuscita dei cosiddetti “percorsi di inclusione attiva” delle famiglie scampate all’incendio.

I rom hanno capito subito che questa ricerca la dovevano fare da soli, e ancora più velocemente hanno capito che affittare una casa (dignitosa e con parametri abitativi uguali a quelli di qualunque altro cittadino) nel quartiere dove risiedono da trent’anni, con un contributo di questa entità è praticamente impossibile. Forse questo lo ha capito anche l’amministrazione che ha preferito non fare brutte figure e non rischiare ricerche fallimentari.

La ricerca si è estesa ai comuni della provincia, e qualche famiglia ha iniziato a lasciare Scampia. Lasciare Scampia significa lasciare la scuola, che tutti i bambini in età dell’obbligo hanno continuato a frequentare anche nei mesi di permanenza nell’auditorium, per di più interrompendola a metà anno; lasciare i progetti educativi e le attività pomeridiane che a Scampia proliferano, e vanno dalla musica allo sport passando per il teatro; lasciare le attività lavorative, seppur precarie, fragili, incerte; lasciare la rete di sostegno che si è creata negli ultimi venti anni; lasciare gli amici, gli affetti, i ricordi, che anche per i rom, grandi e piccoli, contano e fanno parte del patrimonio di vita.

Otto mesi di bugie e promesse mancate
I comitati, le associazioni, i singoli attivisti, più alcuni professionisti e intellettuali che da anni sostengono e collaborano in vario modo con le comunità rom di Cupa Perillo, provano a confutare le versioni ufficiali della controparte istituzionale, che detta la linea di governo e le politiche del welfare in questa città, quella che alla fine decide senza curarsi di consultazioni e tavoli di sorta. Il primo punto della confutazione, riguarda la presunta scelta delle famiglie di accettare i cinquemila euro, descritti nella delibera come “fondo per l’autonomia” ma in realtà, vista l’entità, un risarcimento danni per le perdite complessive causate dall’incendio, e che dato senza nessun tipo di monitoraggio vanifica del tutto il goffo tentativo istituzionale – seppure c’è stato – di introdurre pratiche come il sostegno all’affitto, e non si avvicina nemmeno lontanamente al concetto di housing sociale. Rifiutare i soldi si sarebbe potuto fare, ed è stata annoverata tra le possibilità, se l’interlocutore comunale fosse stato solido e affidabile, se la prospettiva a lungo termine fosse stata almeno suggerita, se si fosse iniziato – molto tempo prima – un percorso di costruzione credibile, serio e competente, per garantire il cosiddetto “benessere abitativo”.

Al contrario, i tentativi di mantenere in vita un tavolo di partecipazione attiva con i protagonisti di questa storia sono miseramente falliti uno dopo l’altro, con una sistematica presa in giro da parte del Comune fatta di incontri inutili e ripetitivi in cui nulla è stato rispettato, dalla tempistica al coinvolgimento in un’improvvisata progettualità: otto mesi in auditorium invece di “uno o due, il tempo di allestire altri spazi di accoglienza”; la prospettiva del trasferimento nella caserma Boscariello, che ha causato una mezza rivolta dei cittadini di Miano ed è stata rapidamente insabbiata; la promessa della bonifica del campo di Cupa Perillo che è stata a un certo punto venduta dal vicesindaco come certezza ma che non è mai partita. Al termine di mesi (anni) di finti tavoli e parole mai mantenute, il Comune ha deciso di stanziare qualche soldo come un’elemosina pur di liberarsi delle famiglie e liberare l’auditorium. Le famiglie, con il trauma dell’incendio e indebolite da mesi di vita dentro un teatro – soprattutto anziani, donne, qualcuna anche incinta, giovani, bambini, neonati –, tenaci in un percorso di attivismo che ha dovuto pure fronteggiare rigurgiti fascisti e razzisti, rimaste da metà ottobre a oggi senza nessun servizio di assistenza minima (dai pasti alle questioni sanitarie, con il solo sostegno della vasta rete di solidarietà del quartiere), hanno infine accettato questi soldi, pensando che il rifiuto equivalesse al nulla e che non ci sarebbe stata una proposta migliore.

Gli sgomberi indotti nella “città dell’accoglienza”
Quello che non si aspettavano, le famiglie rom, è che nello stesso giorno in cui è partito il bonifico, gli assistenti sociali dell’Ufficio rom e patti di cittadinanza, che durante questi mesi si sono visti sporadicamente, si presentassero per spiegargli a voce che entro ventiquattro ore bisognava lasciare l’auditorium. Questi erano i patti. Non c’è stata alcuna notifica scritta, non si può provare che abbiano minacciato di mandare la polizia, non si può dimostrare che lo abbiano detto davvero e infatti poi le dichiarazioni ufficiali dell’assessore lo hanno smentito. Fatto sta che dalla notte al giorno, i rom hanno cominciato a fare le borse, a organizzare le macchine, quelli che ce l’hanno, a partire, ad andare via per paura di pressioni più insistenti. Un mercoledì in cui i bambini non sono andati a scuola e non sappiamo se, quando e dove ci torneranno.

Uno sgombero indotto, come è stato definito perché non si è trattato di un sgombero coatto diretto dalle forze dell’ordine, ma appunto di una spontanea fuoriuscita dall’auditorium, una prassi ormai consolidata nella nostra accogliente città cosicché i nostri amministratori possano sempre dichiarare di non essersi macchiati di nessuna violenza istituzionale.

Il coro dei difensori filo-istituzionali e degli opinionisti dell’ultima ora si domanda stizzito: ma cosa vogliono questi rom, hanno pure avuto i soldi? E aggiungono diffamando con assoluta certezza: le associazioni parlano perché ci speculano e guadagnano su di loro. Qualcuno è più benevolo e si limita a condannare un atteggiamento che si presume assistenziale. La solidarietà, il processo di comunità, il lavoro di prossimità, le lotte collettive per la difesa dei diritti non fanno evidentemente parte dell’orizzonte mentale dei più.

Il piccolo F. gioca tra le aiuole e si arrampica sulle ringhiere, aggirandosi spavaldo e sorridente con la sua maglietta con la scritta “È un giorno buono”. Ancora per un po’ sarà un abitante dell’auditorium perché alla fine della giornata, con una telefonata, l’assessorato ha concesso qualche giorno di permanenza in più (dieci? quindici? finché non trovano una sistemazione? Chi può dirlo, nemmeno un rigo di impegno scritto e comunque il grosso delle famiglie è partito, qualcuno anche all’avventura).

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