Come hanno fatto diventare precari me e la mia scienza
Sergio Argento è un ricercatore italiano. Niente di eccezionale, “solo” tredici anni di lavoro nei settori più delicati, a portare avanti giorno dopo giorno il patrimonio più importante del Paese: la scienza. Dov’è finito ora?
Vengono colpiti di fatto tutti quei ricercatori di età compresa tra i 30 e i 40 anni, a prescindere dal loro curriculum scientifico
In tredici anni di ricerca universitaria ha fatto di tutto: il docente a contratto, l’assegnista, il dottore di ricerca, il puntiglioso studioso in progetti sperimentali. Ha lavorato con gli studenti e nel chiuso di una stanza. Oggi Sergio Argento, 40 anni, ricercatore in Agraria, in facoltà ci va ogni tanto “solo per guardare alla finestra”, dice. Che è un modo elegante per dire che la partita accademica per lui e per tanti altri si è chiusa. E che i tredici anni della sua vita di studioso accademico per lui sono sfumati con gli ultimi provvedimenti del governo uscente. In testa, il concorso a ricercatore che non prevede più un incarico a tempo indeterminato, ma un amaro sistema di “tre anni più due” non più rinnovabile.
La sveglia per Argento e per molti altri suonò appena otto mesi fa, quando il Senato accademico dell’Università di Catania decise di mettere nero su bianco una norma che provò a tagliare subito centinaia di teste ad almeno due generazioni di ricercatori; si trattava dell’imposizione di limiti cronologici (6 o 10 anni) a partire dalla data di conseguimento della laurea per la partecipazione alle selezioni pubbliche finalizzate al conferimento di assegni di ricerca. Poi con la minaccia del ricorso al Tar da parte dei sindacati si ottenne una proroga nell’ applicazione di tre anni. Un modo per prendere tempo ed organizzarsi, per chi lo può ancora fare.
“Fu una semplice modifica di regolamento d’ateneo, ma applicata a un punto chiave – racconta Argento – In questo modo l’Ateneo voleva sbarazzarsi di noi in un solo colpo, e senza scrupoli. Poi la norma venne corretta, ma i nostri problemi erano comunque pregressi e molto gravi . Al momento non si vede riparo”.
La reazione in quei giorni? D’incredulità prima, di disperazione dopo. “Quando la modifica venne deliberata, qualcuno dei miei colleghi si trovava all’estero, a lavorare per quell’Università che l’aveva appena tagliato fuori”.
Neanche la parziale marcia indietro ha cambiato di fatto le cose. Inevitabile per Sergio, e molti altri, guardare in faccia la realtà, fare un viaggio a ritroso nel tempo. Osservare con lucidità quei tredici anni che sono serviti a formarsi, ad arricchire la ricerca di risultati, a spingere ( in alto) le carriere altrui. E chiedersi: che fare adesso?
“Ho iniziato a lavorare per l’università appena laureato. Per me arrivò l’opportunità di seguire un progetto in un territorio che mi era molto familiare. C’erano da fare prove sperimentali e il lavoro mi piaceva. Poi ci fu il dottorato di ricerca, tappa fondamentale per un ricercatore, poi altre forme di collaborazione, poi le borse, gli assegni… E i 13 anni sono trascorsi così: entravo in facoltà alla mattina e me ne uscivo alla sera. Una trappola piuttosto subdola. Non avevo neanche troppo tempo per pensare a quello che stava accadendo, e al rischio che correvo. Ma c’era una sorta di ‘patto d’onore’ con i nostri docenti. Eravamo certi che col tempo le nostre qualità, i nostri sacrifici, i nostri risultati soprattutto, sarebbero stati premiati con la fine del precariato. Invece…”
Invece Sergio e gli altri si sono visti scivolare via il loro futuro – di ricercatori, ma anche di cittadini – poco a poco.
“La delibera del marzo scorso è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ma nei fatti lo slittamento ai prossimi tre anni non cambia la sostanza per chi ha la mia età, -ammette-. Dovrebbe cambiare il reclutamento e per salvare il salvabile nel nostro caso, dovrebbero essere trovate le risorse finanziarie per la stabilizzazione. Invece si nasconde la polvere sotto il tappeto”.
Sergio Argento lo giura: non nutre alcun risentimento verso singole persone. “E’ il sistema che non va, e il sistema è più forte della volontà della gente. Sono cambiate le leggi, le condizioni, gli ordinamenti, la storia stessa. Tutto in peggio. E’ andata così, un’intera generazione di intellettuali e ricercatori non ha praticamente speranze. Ma io devo continuare a fare quello per cui ho studiato, quello che so fare nella realtà di tutti i giorni”.