Nel Campo di Mineo dove noi bianchi rinchiudiamo i neri
“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’ uomo…” Vabbe’, queste sono le chiacchere. Vediamo com’è veramente la realtà
Immediatamente fuori dal “Residence degli aranci” è il silenzio a far da padrone. Il via vai pigro di navette, auto dei carabinieri, mezzi della Croce rossa, scivola come se non volesse pesare all’esterno. Siamo a Mineo, comune di poco più di cinquemila abitanti. Da queste parti ci sono nati Luigi Capuana e Giuseppe Bonaviri. In verità, pure il condottiero siculo Ducezio. Ma sarebbe impossibile bluffare sino in fondo. Perché qui non siamo nel paesino accogliente con i caffè e le palme. Qui siamo in campagna, lontanissimi dalla gente, a stretto contatto con gli svincoli stradali. Questa è la Mineo spoglia di case e di persone, dove il vento ti schiaffeggia in ogni stagione dell’anno. Sei isolato.
Il Residence degli Aranci, ribattezzato “della solidarietà”, accoglie il CARA di Mineo dal 18 marzo del 2011 e altro non è, che l’ex complesso che l’impresa Pizzarotti di Parma tentò di affittare senza successo ai militari americani di Sigonella. Poi il Governo pensò di utilizzarlo per fronteggiare il flusso migratorio dal Sud del Mediterraneo. Una buona occasione per la Pizzarotti, e una buona azione per i poveri migranti. Chiamiamolo pure un affare.
Loro, i migranti, entro ed escono senza problemi, hanno anche una card carica di 3, 5 euro al giorno che gli permette di fare piccole spese. Solo che per recarsi a Caltagirone, devono fare un lunghissimo tragitto a piedi. I bus ci sono solo per Mineo. Per il resto, sei tagliato fuori.
Spesso i rifugiati richiedenti asilo cercano passaggi in auto, oppure vanno via con tanto di borsone con le poche cose e i documenti. A piedi, per chilometri.
Gli “ospiti”, come tutti li chiamano qui, parlano poco o niente con i giornalisti che sperano di fare due chiacchiere fuori. Colpa della lingua, certo.
Ma qui ci sono parecchi nordafricani che l’Italia la conoscono attraverso la tv, o che vengono da zone turistiche del Maghreb, o che le lingue europee, molto semplicemente, le hanno studiate. Eppure scappano di fronte ad una macchina fotografica, ad una telecamera, o anche ad un semplice cellulare.
Molti hanno paura di essere riconosciuti nel loro Paese, da dove sono scomparsi per ragioni politiche. Altri non si fidano dei giornalisti. Altri ancora vorrebbero socializzare, ma finiscono per dirti poco.
“Ciao, sono pakistano- dice Abdel- Dove vado dopo il CARA? Non lo so, aspetto un lavoro. Qui in Italia non ce n’è, a Catania ancora meno che niente. Forse vado in Francia, forse. Aspetto che succeda qualcosa”.
E nel frattempo? “Resto qui. Mi danno da mangiare e dormo tranquillo. Non saprei dove altro andare”.
Sono in tantissimi ad usare nomi falsi anche con le autorità. Qualcuno ha dei precedenti penali e spera di azzerare tutto, sperano di rifarsi una vita.
Per esempio Anthony Yeboah, 31 anni, ghanese, era un omonimo di un ricco e famoso calciatore della nazionale di calcio del suo Paese. Era, e non è ancora, perché Anthony è deceduto due mesi fa all’ospedale di Caltagirone. A stroncarlo è stato un ictus. E’ entrato in uno stato soporoso e il trombo non è stato recuperato, nonostante si sia fatto in tempo ad effettuare una ecodoppler ed una Tac.
Ma Yeboah si era già recato all’ospedale il 9 marzo, ossia il giorno prima che la condizione si aggravasse; per i sanitari, però, è bastata un’iniezione disintossicante di Plasil per dimetterlo, anche perché il migrante era arrivato – come comunica ufficialmente lo stesso ospedale “Gravina”- in evidente stato di ebbrezza.
“Non sappiamo però nulla sulle condizioni di salute di Anthony Yeboah prima che si recasse in ospedale in condizione d’ urgenza. Ci chiediamo se si fosse sentito male anche nei giorni precedenti la morte e se il malessere sia stato correttamente decodificato già all’interno della struttura, soprattutto nelle ore precedenti il ricovero – dice l’ avvocato Goffredo D’Antona dell’ Osservatorio dei diritti Catania – . Non sappiamo ancora quanti medici ci siano al Cara a fronte di 1800 ospiti. Qualcuno di loro si è lamentato per l’assistenza sanitaria. Sarebbe auspicabile sapere se Anthony avesse chiesto aiuto all’ambulatorio, e se sia stata eseguita una diagnosi del suo problema”.
La Croce rossa aveva promesso di fare chiarezza subito dopo l’autopsia, invece non ha più comunicato nulla. Perché Anthony sia morto è un mistero. Perché la prima volta sia stato dimesso dall’ospedale senza che nessuno si fosse accorto del suo malessere reale, non è chiaro. Ma chi si occuperà del suo caso?
Dentro il CARA ci sono stati una decina di suicidi, ma la notizia è trapelata per caso, grazie alle associazioni umanitarie e a quelle che operano sul territorio, ma dal CARA non viene comunicato nulla di ufficiale.
In verità qualcosa è cambiato rispetto ai mesi scorsi. Da dicembre 2011 il Villaggio della solidarietà è aperto ai giornalisti, ai fotografi e alle telecamere. Un passo avanti non da poco, visto che nelle prime settimane di attività i volontari della Croce rossa arrivavano a provocare i cronisti arrivati da ogni parte d’Italia.
“Ma perché non la butta giù quella telecamera? Perché non la rompe?”, diceva qualcuno di loro, infastidito anche da domande banali tipo: “Come stanno i rifugiati?”.
Ora – almeno questo – la vita quotidiana dentro il Centro è parzialmente osservabile. Inutile inventarsi storie: il cibo non manca, la vita scorre, esistono strutture accoglienti come le ludoteche per bambini, le aule per i corsi d’italiano, gli internet point, i bazar, la grande sala mensa. Gli alloggi sono puliti e ben organizzati- sono 404 in tutto- con tanto di acqua calda, c’è pure lo psicologo. I migranti passeggiano per questi vialoni con gli alloggi “a schiera”. C’è chi sorride, chi no.
Il direttore del centro, Ianni Maccarrone, non lo dice ma di certo non nasconde la sua soddisfazione per questo “gioiello” di accoglienza. Maccarrone guida il Villaggio da quando la struttura è passata dalle mani della Croce rossa a quelle del consorzio Sisifo, in associazione temporanea di imprese con Solco.
L’ente attuatore è la Provincia di Catania. La capienza massima degli ospiti è di duemila unità. Oggi sono 1800, per lo più nigeriani, somali e pakistani, e il gettone percepito dai gestori è di circa 23 euro a migrante. Ci vogliono tanti soldi per mantenere il centro. Fino a poche settimane fa il CARA di Mineo era meta continua di trasferimenti da altri CARA. L’equazione “più ospiti, più soldi” è immediata. Ora i flussi sono diminuiti. Ma sono troppi quelli che dal Centro non se ne vogliono andare, anche col permesso in tasca. Qui
Il ministero dell’Interno ha prorogato la convenzione per il dicembre 2012. Però se a Maccarrone si dice che tutto questo costa troppo lui dice che tutti stanno facendo il proprio dovere. “E che facciamo , non li accogliamo? Andata a vedere cosa sta succedendo al CIE di Trapani, e fatevi un’idea…”
Se al direttore chiedi come mai tutti questi suicidi, lui risponde che si tratta di persone provate, che vengono da guerre e condizioni estreme, che hanno fatto viaggi orribili prima di venire da noi: vero anche questo. Ma cosa succederà quando la proroga finirà? E, soprattutto, che fine ha fatto l’integrazione, quella vera, col territorio?
“Guardi che alcuni di loro sono divenuti mediatori culturali, vengono persino stipendiati per questo. A qualcuno siamo usciti a trovare anche un lavoro”. A quanti? Maccarrone non è preciso, ma cita pochissimi casi, inferiori come numero alle dita di una mano.
Il fatto è che il CARA, oggi, è una sorta di prigione dorata dove in assenza di alternative, il migrante più sfortunato, quello che non ha parenti o amici all’estero o al Nord Italia, si rifugia in attesa di qualcosa che non avverrà mai.
Ancora Maccarrone: “Ma qui è anche nato l’amore tra coppie. Da ottobre ad oggi sono nati una ventina di piccoli e speriamo prima o poi di mandarne qualcuno all’asilo, a Mineo.
E poi guardi che noi fronteggiamo i possibili contrasti con il calcio; usiamo organizzare tornei con squadre volutamente promiscue, in modo che facciano gruppo”. Ah, giá, il calcio…