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Cinquant’anni fa il terremoto in Sicilia

Quando la burocrazia uccide più del terremoto

Le scosse erano iniziate il giorno prima, ma le più forti si verificarono nella notte fra il 14 ed il 15, fra le 2:33 e le 3:01. La più forte di tutte fu di magnitudo 6.1, causò le distruzioni maggiori e fu avvertita sino a Pantelleria. A Gibellina Vecchia, Montevago e Salaparuta Vecchia, venne raggiunto il X grado nella Scala Mercalli. Un’ultima scossa molto forte avvenne il 25 gennaio e fu il colpo di grazia per le poche mura rimaste in piedi. In totale ci furono sedici forti scosse e, in tutto il periodo dal 14 gennaio al 1° settembre 1968, le scosse di magnitudo pari o superiore a 3 furono ottantuno. Interi paesi furono cancellati e distrutti, i danni più gravi a Montevago, Gibellina, Salaparuta e Poggioreale, Menfi, Montevago, Partanna, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita di Belice e Santa Ninfa.

paesaggio
Le cifre ufficiali riportano di duecentotrentuno vittime e seicentoventitre feriti, ma altre fonti parlano di oltre quattrocento morti e più di mille feriti e di 70mila sfollati. Le popolazioni dei paesi colpiti erano composte in gran parte da anziani, donne e bambini, visto che i giovani e gli uomini erano già da tempo emigrati in cerca di lavoro.

Il terremoto scoprì l’esistenza di una parte della Sicilia dove si viveva in condizioni di povertà impressionanti, dove nelle stesse povere stanze abitavano uomini e animali. La precarietà delle condizioni, la fatiscenza e la fragilità degli edifici in tufo ne accelerarono o facilitarono la distruzione. Parecchia gente conserva ancora la memoria di quei giorni, quando la terra ballava sotto i piedi, i lampadai che si muovevano davano il segnale, si dormiva all’aperto, in macchina o si cercava rifugio nelle campagne.
Ci si rese conto della gravità della situazione con l’arrivo dei primi soccorsi, impossibilitati a procedere, poiché intere strade erano scomparse e i collegamenti interrotti. Un pilota di uno degli aerei impegnati nella ricognizione della zona dichiarò di avere visto “uno spettacolo da bomba atomica […] Ho volato su un inferno”. Nei paesi vicini la solidarietà della gente si manifestò subito con raccolte improvvisate di abiti, cibo, coperte, ma i camion e i mezzi inviati con gli aiuti, si trovarono impantanati nel fango, impossibilitati a procedere per potere soccorrere chi aveva perso tutto e non aveva neanche di che mangiare e coprirsi. Si aggiunga la mancanza di coordinamento, l’impreparazione logistica e l’iniziale inerzia dello Stato, incapace di far fronte a una tragedia di quelle dimensioni e il quadro è chiaro.
Un mese dopo il sisma, nella provincia di Trapani 9mila senza tetto erano ricoverati in edifici pubblici, 6mila in tendopoli, più di 3mila in tende sparse e 5mila in carri ferroviari, mentre 10mila persone erano emigrate in altre provincie. Gli abitanti vissero per mesi nelle tendopoli e poi per anni nelle baraccopoli. Nel 1973 i baraccati erano 48.182, nel 1976 erano ancora 47mila. Le ultime duecentocinquanta baracche con i tetti in eternit furono smontate solo nel 2006. Tra ritardi incredibili iniziò la ricostruzione con opere faraoniche spesso inutili, come quelle di Gibellina, città-museo “all’aperto” presentata come simbolo ed esempio di una ricostruzione affidata alla progettazione di famosi architetti e artisti ma assolutamente fuori dal rapporto con le caratteristiche del territorio e le esigenze degli abitanti, prime fra tutte l’occupazione e il lavoro, ma anche l’esistenza di luoghi di socializzazione. Non venne ripristinata la ferrovia Salaparuta-Castelvetrano che collegava la maggior parte dei centri dell’area terremotata con la zona costiera, mentre venne finanziata e costruita l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, ma non si tenne alcun conto della necessità di ricostruzione della viabilità ordinaria di collegamento tra i centri abitati.
Due anni dopo il terremoto, attraverso la sua Radio dei Poveri Cristi, Danilo Dolci da Partinico denunciò a tutto il mondo la situazione drammatica in cui erano costretti a vivere gli abitanti del Belice in baracche di metallo poggiate sulla terra nuda. Dolci, dal suo centro studi a Borgo di Dio, a Trappeto, elaborò, assieme ai suoi collaboratori, un piano per la rinascita del Belice, con i fondi disponibili, ma chi doveva occuparsene e finanziarlo, non ne tenne alcun conto, perchè in quel piano non c’era spazio per le speculazioni mafiose. Restano nella memoria le frasi scritte sui muri dei ruderi, “La burocrazia uccide più del terremoto”, “Qui la gente è stata uccisa nelle fragili case e da chi le ha impedito di riappropriarsi della vita col lavoro”, “Governanti burocrati: si è assassini anche facendo marcire i progetti”. Seguirono altri lunghi anni di appalti affidati a ditte spesso in odore di mafia, di promesse, di stanziamenti scomparsi tra le tasche di abili speculatori. Complessivamente, per una ricostruzione non del tutto completata, sono stati spesi ai valori attuali, oltre 6 miliardi di euro: altre stime dimezzano questa cifra. I paesi vennero ricostruiti in aree lontane da quelle originarie con infrastrutture urbanistiche spesso spettrali e dispersive, che poco hanno a che fare con le caratteristiche storiche, architettoniche e sociali dei paesi siciliani. Ancora oggi la ricostruzione non è finita, ma soprattutto non c’è alcuna forma di sviluppo economico, i giovani vanno altrove, il flusso emigratorio iniziato dopo il terremoto è in continuo aumento, perchè la disoccupazione ha raggiunto il 50%, le case ricostruite sono disabitate, il valore dei fabbricati è bassissimo, da 300 a 500 euro mq. e, a parte la persistenza di alcune zone di viticultura, le terre sono abbandonate, non ci sono investimenti, e i progetti di eventuali insediamenti economici naufragano tra la burocrazia, il clientelismo, il parassitismo e l’incapacità di realizzare occasioni di lavoro che consentano di restare nella propria terra e di viverci dignitosamente.

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