domenica, Novembre 24, 2024
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Un eroe del nostro tempo

«L’unico che è stato disposto ad ascoltarci, Sansonetti di Calabria Ora». Parola di ‘ndrangheta. Meglio: parola di Giuseppina Pesce, pentita – ma poi ripentita – di ‘ndrangheta.

Giuseppina torna nei ranghi, Giuseppina non si pente più. E accusa i magistrati di averla indotta alla collaborazione in una lettera pubblicata solo da “Calabria Ora”

É l’8 settembre scorso. Giuseppina è interrogata dai magistrati della Procura di Reggio Calabria. Risponde sul perché, nell’aprile del 2011 – alla vigilia di un’udienza preliminare nella quale avrebbe dovuto confermare le accuse rivolte contro i suoi familiari – aveva deciso di interrompere la collaborazione con gli inquirenti. Era stata inserita nel programma di protezione a metà ottobre 2010 e le sue dichiarazioni avevano inchiodato molti personaggi di spicco di una delle locali più potenti della ‘ndrangheta, operante a Rosarno.

«Sono tornata indietro – dice – perché pensavo che i miei figli avrebbero smesso di soffrire. Sapevo che per me non ci sarebbe stato un futuro, che avrei fatto una brutta fine, ma speravo per loro». Così, Giuseppina, si fece convincere dal suocero a farsi seguire dall’avvocato Giuseppe Madia, legale di fiducia della ‘ndrina.

Quella decisione fece scalpore. Alla sua collaborazione i giornali avevano dedicato molto spazio: era lei la protagonista di una storia che vedeva soccombere, dopo decenni di dominio incontrastato, un vero e proprio moloch della ‘ndrangheta. La vita di Giuseppina diventa un film. Le sue dichiarazioni, la sua famiglia, le lettere dei figli. Tutto diventa di pubblico dominio. Ora il colpo di scena: Giuseppina torna nei ranghi, Giuseppina non si pente più. E accusa i magistrati di averla indotta alla collaborazione in una lettera pubblicata solo da “Calabria Ora”. 

É il 28 aprile 2011. L’apertura di prima pagina in cubitali rossi del quotidiano calabrese è «Costretta a pentirmi»: «L’avvocato della signora Pesce, Giuseppe Madia, dice che i giudici hanno ignorato una perizia medica la quale consigliava la scarcerazione o comunque l’avvicinamento a casa dell’imputata; e hanno fato capire alla signora Pesce che avrebbe potuto rivedere i suoi bambini solo se avesse rilasciato determinate dichiarazioni accusando i parenti». Il direttore, Piero Sansonetti, sventola l’esclusiva e scrive un editoriale di fuoco indirizzato al procuratore della Repubblica di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone: «La lotta alla mafia, come tutti gli esercizi di giustizia, deve esser condotta dentro le regole, rigorosamente dentro le regole, assolutamente dentro le regole. Altrimenti si dà forse qualche colpo alla mafia ma si danno colpi ancor più seri all’impianto della nostra società giuridica».

Nei due giorni successivi, Giuseppe Baldessarro, sul “Quotidiano della Calabria” smonta quelle accusa andandosi a rileggere gli atti giudiziari della Pesce, e il procuratore scrive un articolo sul “Riformista”: «Sul caso Pesce, Sansonetti sbaglia». Il direttore di “Calabria Ora”: «In questo articolo Pignatone ribadisce alcune delle affermazioni che un paio di giorni fa erano state anticipate sul “Quotidiano di Calabria”, ma non attribuite esplicitamente a Pignatone bensì firmate da un giornalista di quella testata (è una pratica che a noi non piace ma che ormai è molto estesa quella dei giornali che si fanno megafoni diretti e portavoce ufficiali delle Procure)». 

Il pensiero della parlamentare Angela Napoli: «Parlare di un giornalista come del “portavoce delle procure” in una terra come la Calabria è estremamente grave, perché mette a rischio in maniera molto netta l’incolumità del giornalista». Il cdr del “Quotidiano della Calabria”: «Il direttore di “Calabria Ora”, Piero Sansonetti, ha messo all’indice un nostro collega della redazione di Reggio Calabria, Giuseppe Baldessarro. Riteniamo questa pratica molto pericolosa sia per l’incolumità fisica del nostro collega, sia per l’intera categoria, sia per la stessa efficacia della lotta al malaffare e alla ‘ndrangheta».

La risposta nell’editoriale di Sansonetti del 7 maggio: «Vi dirò la verità, io me ne frego un po’ della legalità. […] Legalità vuol dire rispetto delle leggi. Che sia un valore o un disvalore, ovviamente, dipende dalle leggi e da come vengono applicate. Rispettare le leggi non sempre, secondo me, è un merito. La disobbedienza – diceva un certo don Milani – è una virtù. Già, ma chi se lo ricorda più don Milani! A me spesso le leggi non piacciono. Io non mi sono mai schierato dalla parte della legalità. Tendo a pensare che sia giusto schierarsi a difesa dei deboli, chiunque essi siano, che siano buoni o cattivi, colpevoli o innocenti».

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