La solidarietà non è un crimine
Il comunicato di Padre Zerai, sotto inchiesta perché aiuta i migranti
Negli ultimi giorni, prendendo spunto dall’inchiesta aperta dalla Procura di Trapani su alcuni episodi di cui si sarebbero resi protagonisti membri della Ong tedesca Jugend Rettet, sono stato chiamato in causa da qualche testata giornalistica per episodi che, così come sono stati ricostruiti e raccontati, si rivelano a mio avviso vere e proprie calunnie e, per la sistematicità con cui vengono rappresentati e diffusi, potrebbero configurare una vera e propria campagna denigratoria nei miei confronti e di quanti collaborano con me nel programma umanitario in favore di profughi e migranti, che abbiamo costruito nel corso di anni di lavoro.
Mi riservo di controbattere nelle sedi legali opportune a questa serie di calunnie che mi sono state indirizzate. Per il momento posso dire di aver ricevuto solo la mattina di lunedì 7 agosto, mentre rientravo da un viaggio di lavoro, la notizia che la Questura di Trapani dovrebbe notificarmi l’avviso di un procedimento per conto della locale Procura. Immagino che sia un provvedimento ricollegabile all’inchiesta aperta sulla Ong Jugend Rettet. Se di questo si tratta, posso affermare in tutta coscienza di non aver nulla da nascondere e di aver agito sempre alla luce del sole e in piena legalità. A parte l’iniziativa di Trapani, di cui ho già informato i miei legali in modo da prenderne visione ed eventualmente controbattere in merito, non sono stato chiamato in alcuna altra sede per giustificare o comunque rispondere del mio operato in favore dei profughi e dei migranti.
Confermo che, nell’ambito di questa attività – che peraltro conduco da anni insieme ai miei collaboratori – ho inviato segnalazioni di soccorso all’Unhcr e a Ong come Medici Senza Frontiere, Sea Watch, Moas e Watch the Med. Prima ancora di interessare le Ong, ogni volta ho informato la centrale operativa della Guardia Costiera italiana e il comando di quella maltese. Non ho invece mai avuto contatti diretti con la nave della Jugend Rettet, chiamata in causa nell’inchiesta della Procura di Trapani, né ho mai fatto parte della presunta “chat segreta” di cui hanno parlato alcuni giornali: le mie comunicazioni sono state sempre inoltrate tramite un normalissimo telefono cellulare. Tutte le segnalazioni sono il frutto di richieste di aiuto che mi sono state indirizzate non da battelli in partenza dalla Libia, ovvero al momento di salpare, ma da natanti in difficoltà al largo delle coste africane, al di fuori delle acque territoriali libiche e comunque dopo ore di navigazione precaria e pericolosa. Quando mi è stata comunicata nella richiesta di aiuto, ho specificato anche la posizione in mare più o meno esatta del natante. Lo stesso vale per il numero dei migranti a bordo ed altre notizie specifiche: persone malate o ferite, donne in gravidanza, rischi particolari, ecc. In buona sostanza, cerco di avere ogni volta le informazioni che mi sono state indicate proprio dalla Guardia Costiera Italiana. È vero che di volta in volta ripeto la segnalazione anche via mail, ma anche questo è dovuto a un’indicazione che ho ricevuto nel 2011 dal comando centrale della Guardia Costiera, che mi chiese di confermare i miei messaggi via mail, cioè in forma scritta, dopo la tragedia avvenuta nel Mediterraneo tra i mesi di marzo e aprile (sessantatré morti), in merito alla quale diversi soggetti negarono di aver ricevuto richieste di soccorso.
Non si tratta dunque, come qualcuno ha scritto, di messaggi telefonici in rete “pro invasione” dei migranti – ammesso e non concesso che sia un’invasione, ipotesi smentita dalle cifre stesse degli arrivi rispetto alla popolazione europea – ma di interventi rivolti a salvare vite umane. Interventi concepiti nel medesimo spirito, ad esempio, dell’operazione Mare Nostrum – varata nel novembre 2013 dal Governo italiano e purtroppo revocata dopo un anno – nella convinzione che se programmi del genere fossero in vigore ad opera delle istituzioni europee o magari dell’Onu, probabilmente non sarebbe stata necessaria la mobilitazione delle Ong e, più modestamente, quella di Habeshia, nel Mediterraneo. Fermo restando che il problema non si risolve con il soccorso in mare, per quanto tempestivo ed efficiente, ma, nel breve/medio periodo, con l’organizzazione di canali legali di immigrazione e con una riforma radicale del sistema europeo di accoglienza e, nel lungo periodo, con una stabilizzazione/pacificazione dei paesi travolti dalle situazioni di crisi estrema che costringono migliaia di persone a fuggire ogni mese.
Quanto alle accuse che mi vengono mosse dal Governo eritreo, anche queste ampiamente riprese da alcuni organi di stampa, si commentano da sole: sono le accuse di un regime dittatoriale che ha schiavizzato il mio Paese e non tollera alcun tipo di opposizione, perseguendo anche il minimo dissenso con la violenza, il carcere, i soprusi, la calunnia. Un regime – hanno denunciato ben due rapporti dell’Onu, dopo anni di inchiesta, nel 2015 e nel 2016 – che ha eletto a sistema il terrore, costringendo ogni anno migliaia di giovani ad abbandonare la propria casa per cercare rifugio oltre confine.
Alla luce di tutto questo, ritenendo molte notizie pubblicate sul mio conto assolutamente diffamatorie e denigratorie, ho dato incarico ai miei legali di tutelare in tutte le sedi opportune la mia onorabilità personale, quella del mio ruolo di sacerdote e quella di Habeshia, l’agenzia che ho fondato e con la quale collaborano persone assolutamente disinteressate e a titolo totalmente volontario.