Paola è morta di fatica nei campi
In provincia di Foggia una #marciaNOCaporalato
Lunedì 17 a Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, centinaia di persone hanno partecipato alla #marciaNOCaporalato. Hanno potuto rendersi conto che ancora oggi, nel civile mondo occidentale, c’è una parte di popolazione che versa in condizioni disumane.
Parliamo della Puglia, in particolare delle campagne in provincia di Foggia, la “profonda capitanata”. Ma potremmo parlare anche della Sicilia (nel ragusano, specialmente a Vittoria); come potremmo parlare dei campi laziali vicino a Latina; come, paradossalmente, potremmo parlare del tanto più nordico Piemonte, con i paesi di Canelli e Saluzzo. Tutte queste località presentano un comune denominatore: il caporalato. Tra le tante forme di schiavitù radicate da tempo nel nostro paese, insieme alla prostituzione, sta riemergendo agli occhi della cronaca degli ultimi anni la cosiddetta “intermediazione privata a scopo di lucro”.
L’esodo in corso nutre un serbatoio di forza lavoro a basso costo che va a riempire i cantieri e i campi di tutta Italia. Dietro al caporalato esistono dinamiche difficili da sradicare. È un sistema che risulta conveniente ai più. Tramite i “caporali”, che nella loro organizzazione sono suddivisi in una gerarchia ben precisa (dai “capineri”, ai “caporali mafiosi”, ai “capi amministratori delegati”, ai “venditori”, agli “aguzzini” e tanti altri: la rosa di ruoli e compiti evidenziata dagli studi è ampia), viene arruolata e organizzata la manodopera per conto di imprenditori e proprietari di aziende agricole.
I lavoratori sono spesso in condizioni di precarietà tale da non avere altra alternativa: l’80% sono immigrati irregolari, i quali, di conseguenza, non hanno nemmeno la possibilità di rivolgersi alla giustizia in caso di soprusi o mancato pagamento, essendo essi stessi punibili secondo la legge italiana. Fa riflettere, pertanto, anche il restante 20%, composto da cittadini italiani, costretti ad adattarsi a salari da fame pur di arrivare a fine giornata. Emblematico il caso di Paola Clemente, italiana originaria della provincia di Trani morta di fatica nei campi nel 2015. Il Terzo Rapporto 2016 su agromafie e caporalato elaborato dall’Osservatorio “Placido Rizzotto” di Flai Cgil fornisce dati inquietanti. Sono tra i 400 e i 430mila i lavoratori irregolari, tra potenziali ed effettive vittime del caporalato in Italia, i quali producono un buco nell’economia italiana di 3,3- 3,6 miliardi di euro. Non è e non può essere considerato “lavoro” quello che svolgono questi soggetti: sempre secondo il Terzo Rapporto, le paghe possono variare tra i ventidue e trenta euro al giorno e le giornate di lavoro possono durare dalle otto alle dodici ore. I lavoratori spesso vivono in baraccopoli fatte di paglia, plastica e materiali di scarto; il 60% di essi non ha accesso ad acqua e servizi igienici; sovente sono costretti a subire violenze fisiche, minacce e stupri sistematici (come accade alle rumene nei campi di Vittoria). Spesso viene imposto loro di pagare il trasporto dalle baracche ai campi effettuato dal “caporale tassista”, così come per ricevere i beni di prima necessità.
Dall’altra parte ci sono gli imprenditori, i “padroni”, che provano a produrre puntando all’efficienza. Il libero mercato è implacabile e per non soccombere alle leggi della concorrenza è necessario razionalizzare la logica costi-benefici. Ma sotto un certo limite non si può economizzare sui processi di produzione, dunque non resta che tagliare i costi laddove è possibile: sulla forza lavoro. Di conseguenza, sulla dignità umana. Nel foggiano, la marcia partita da Borgo Mezzanone che si è snodata in mezzo ai campi fino al “Ghetto dei Bulgari” ha potuto constatarlo. I campi fertili disseminati, qua e là, di casolari e baracche; la strada percorsa quotidianamente dagli autoctoni; ghetti – più simili a discariche, che a raggruppamenti di case occupate da uomini; a un chilometro di distanza: la fabbrica di produzione. Tutto alla luce del sole.
E infine c’è la popolazione – gli utenti, noi tutti. E questa, rappresentata da soggetti più o meno consapevoli della problematica, va a ricoprire l’ultimo anello di questa catena. D’altronde, trovando al supermercato degli asparagi in offerta, pur conoscendo la difficoltà della loro produzione e la loro qualità, chi non avrebbe un moto di soddisfazione per il risparmio previsto?
Il caporalato in Italia funziona bene, perché conviene. E conviene non solo agli italiani: fanno riflettere le parole di Mirko, riconosciuto all’interno del “Ghetto dei Bulgari” come portavoce. All’arrivo del corteo, infatti, gli abitanti del ghetto sono accorsi incuriositi e, dopo un iniziale timore, alla richiesta di confronto da parte degli organizzatori della marcia, i braccianti l’hanno spinto avanti. Nonostante le rivendicazioni portate avanti dalla protesta fossero di migliori condizioni lavorative e di vita per tutti gli uomini, donne e bambini presenti nel ghetto, Mirko, dopo aver ascoltato attentamente, con il suo italiano stentato ha detto “Vi chiediamo solo di lasciarci lavorare ancora due mesi”. Le dinamiche sottostanti il caporalato sono complesse: ci sono diversi equilibri da mantenere. Rivendicare i diritti umani comporta un netto rifiuto di condizioni di lavoro senza garanzie né tutele; ma quel guadagno, seppur minimo e seppur realizzato tramite una dinamica di sfruttamento, è ritenuto indispensabile dai lavoratori stessi. “Solo due mesi ancora e poi ce ne torniamo in Bulgaria, promesso” ha continuato a ripetere Mirko, intimorito ma fermo nella sua unica richiesta.
Ma qualcosa si muove. I fatti si accumulano, l’opinione pubblica comincia ad allarmarsi e i cittadini iniziano a muovere proteste e rivendicazioni. È così che è nata la marcia contro il caporalato di lunedì 17 aprile ed è così che è nata la riforma del 603 bis. La riformulazione dell’articolo 603 bis del Codice Penale rappresenta infatti un primo passo. La vecchia legge puniva l’attività organizzata di intermediazione senza definirne più precisamente il concetto e stabilendo specifiche condotte di sfruttamento. La riforma, approvata definitivamente alla Camera il 18 ottobre 2016, introduce alcuni elementi di svolta. Innanzitutto “mette nero su bianco che bisogna colpire il caporale, ma bisogna colpire allo stesso modo anche il sistema imprenditoriale che si avvale del suo aiuto e sfrutta lavoratori in condizioni di vulnerabilità” racconta Davide Mattiello – deputato parlamentare membro della delegazione occupatasi della riforma – presente alla marcia di lunedì 17. Limitando invece alcune specificazioni rispetto alla definizione di sfruttamento, la riforma permette la punibilità di una rosa di casi prima altrimenti esclusi. Ultimo elemento di rilievo è l’incentivo alla creazione di una rete del lavoro agricolo di qualità “Questa legge incentiva la promozione delle imprese oneste che stanno nella competizione del mercato non con la slealtà dello sfruttamento ma con la lealtà del rispetto e della dignità del lavoro” racconta sempre Mattiello. Eppure non basta: questa riforma fornisce uno strumento giudiziario fondamentale per un primo affondo nella pratica del caporalato, ma non può essere l’unico ambito di azione. Marco Omizzolo, uno dei promotori della marcia insieme a Leonardo Palmisano, Giulio Cavalli e Stefano Catone, intellettuali attivisti impegnati su questo tema, lunedì 17 ha spiegato come sia necessario anche “costruire un modo migliore di lavorare, creare una rete di sostegno, un welfare che possa supportare i lavoratori vittime di caporalato, che va di pari passo a un’azione di ripensamento del sistema di accoglienza italiano degli immigrati”. La condizione di vulnerabilità dei numerosi migranti deriva anche dal fatto che è ancora troppo elitario l’accesso al sistema di accoglienza italiano e dal fatto che entrarci non coincide con reali opportunità.
Ad oggi la popolazione ha sempre percorso la strada che attraversa quei campi senza farsi domande, senza fare scelte. Ma non è facile sapere, conoscere e, di conseguenza, scegliere, e infrangere quel vetro insonorizzato che fa filtrare le notizie – la realtà – solo parzialmente. Sarebbe fondamentale rendere effettivo l’articolo 4 della Costituzione Italiana per “il progresso materiale e spirituale della società”. Fondamentale soprattutto se la posta in gioco è la dignità umana.