La battaglia dell’energia
Un reportage dalla centrale termoelettrica di San Giovanni a Napoli
A San Giovanni a Teduccio, periferia orientale di Napoli, esiste una delle ultime centrali termoelettriche della Campania. Un tempo centrale Enel, con le privatizzazioni dei primi anni Duemila fu rilevata dalla Tirreno Power, società tra i cui proprietari figurano Sorgenia di De Benedetti e Gas de France.
Negli anni d’oro venivano impiegate fino a quasi quattrocento persone, oggi sono circa sessanta. Tutte lavorano con contratti di solidarietà. Da qualche anno è stata costruita la nuova centrale a gas, meno inquinante; accanto è sorta anche una nuova palazzina per gli uffici. In una stanza al quarto piano di questo edificio, Massimo Infante e Paolo Grasso raccontano il punto di vista dei lavoratori su questa crisi che da troppo tempo sembra sul punto di precipitare.
In attesa del caffè, Paolo si avvicina alle ampie vetrate dalle quali è possibile osservare tutta l’area della centrale. In basso, un grande spazio vuoto attraversato da una strada asfaltata che collega l’ingresso alla palazzina degli uffici. Le erbacce cresciute in modo spontaneo sembrano delimitare quello che in passato era il perimetro dei singoli edifici, ora rasi al suolo per ammodernare gli impianti. A sinistra, a meno di duecento metri dalla palazzina, le acque della darsena del porto, protette dalla diga antemurale. Esiste un progetto di espansione del porto proprio in questa direzione, nell’area lasciata libera dalle demolizioni. Quel che resta della vecchia centrale dismessa è di fronte. In lontananza, si scorgono alcuni container della Cosco appesi alle gru. Oltre il recinto della Tirreno Power, si intravedono i lavoratori per le scenografie del Teatro San Carlo.
«Oggi in Italia produciamo il cinquanta per cento in più dell’energia necessaria – dice Paolo Grasso –, ma senza un piano energetico nazionale tutte le questioni occupazionali restano fuori controllo. Un “parco” per produrre energia solare ha bisogno al massimo di un supervisore e di una manutenzione occasionale; una centrale come questa necessiterebbe invece, tra lavoratori diretti e indiretti, di molte più risorse per poter funzionare».
La crisi di Tirreno Power viene da lontano e per comprenderla bene bisogna inserirla in quella più generale della produzione di energia elettrica in Italia, in particolare di quella termica, proveniente sia da gas metano che da carbone. «Negli ultimi cinque anni hanno chiuso una trentina di centrali – spiega Raffaele Paudice, responsabile del dipartimento energia della Filctem Cgil Campania –. In Enel abbiamo fatto accordi di incentivo all’esodo e alla mobilità per i lavoratori più vicini alla pensione. Ma Enel è una grande azienda che gestisce oltre alla produzione, anche la distribuzione e la vendita di energia, mentre le società più piccole, come la Tirreno, che è solo produttrice, incontrano maggiori difficoltà».
Dal 2008 la produzione di energia elettrica in Italia ha avuto un crollo verticale – il tre-quattro per cento annuo –, in concomitanza con la diminuzione dell’attività industriale, in particolare, è andata in crisi la produzione a gas, per l’impennata dei costi delle materie prime. Le aziende subentrate all’Enel nei primi anni del nuovo secolo, che avevano investito con piani di ammortamento pluriennale, adesso sono tutte in gravi difficoltà; come il gruppo tedesco E.ON, che ha chiuso le cinque centrali italiane e ha lasciato il paese.
«In Campania – spiega Paudice – hanno chiuso due piccole centrali a gas di proprietà Enel, a Giugliano e Maddaloni. I lavoratori sono stati reinseriti in altre attività. E poi c’è l’impatto delle energie rinnovabili, che sono fortemente incentivate, non solo dal punto di vista economico ma anche dell’immissione in rete. La priorità, infatti, viene data a chi produce energie rinnovabili. Eolico e fotovoltaico non sono immagazzinabili, quindi hanno la precedenza. È come una strada: se c’è traffico, chi fanno entrare prima? Le rinnovabili… E poi si tratta di aziende a basso costo, che richiedono scarsa manutenzione, spesso i lavoratori non hanno nemmeno un contratto del settore elettrico ma di quello del commercio… Così una centrale come quella di San Giovanni, che lavorava sui picchi di produzione, adesso lavora poco».
Nel 2000 i privati che subentrarono a Enel si presero anche il personale dell’azienda di stato, con l’impegno a investire per ammodernare le centrali, molte delle quali erano a olio combustibile, e quindi fortemente inquinanti. Entrarono nel mercato dell’energia gruppi esteri, e poi le grandi municipalizzate del nord Italia. Tirreno Power acquisì tre centrali: Vado Ligure, Civitavecchia e Napoli. Queste ultime due furono riconvertite da olio combustibile a gas. «Prima la centrale di Napoli era molto inquinante e rumorosa, la gente del quartiere se la ricorda bene», racconta Paudice.
Oggi la Tirreno Power è in difficoltà soprattutto a causa del sequestro preventivo, disposto dalla magistratura, della Centrale a carbone di Vado Ligure, l’unico “parco a carbone” della società, ma anche la parte più consistente dei suoi guadagni, perché il carbone è la fonte più inquinante, ma anche quella che costa meno e che ha la resa energetica più alta.
Nel 2013, mentre la Tirreno Power era in attesa dell’Aia, l’autorizzazione di impatto ambientale, per avviare una ristrutturazione nell’impianto di Vado, la Procura di Savona ha sequestrato preventivamente i due gruppi a carbone, sostenendo che negli anni passati erano stati omessi alcuni dati sulle emissioni e imputando alla centrale una serie di decessi tra la popolazione residente nelle vicinanze, e il reato di disastro ambientale. Il fermo impianto ne ha compromesso la funzionalità, mettendo a rischio la ripartenza, perché una centrale a carbone per sua natura è fatta per non fermarsi mai.
«Abbiamo fatto scioperi e presidi per la questione dell’Aia – racconta Paudice –, senza quella non c’è futuro per Tirreno Power. Abbiamo cercato una soluzione concertata con il ministero; ci hanno ricevuto due volte, hanno promesso che sarebbero intervenuti, ma alla fine non hanno risposto. Se il Tar dà parere negativo e Tirreno perde la vertenza, sarà inevitabile la chiusura: senza carbone non hanno più liquidità, già ora hanno difficoltà a pagare gli stipendi… A noi non risultava che le emissioni della centrale superassero i livelli consentiti, ma la magistratura dice che anche quei livelli potevano causare delle morti. Inoltre, gli accordi europei prevedono la dismissione di tutte le centrali a carbone entro il 2020. Se l’azienda nel 2016 non sa ancora se ripartirà con la produzione di energia, difficilmente realizzerà nuovi investimenti sul carbone. Se Vado non riparte, gli effetti sulla riorganizzazione del personale saranno devastanti».
A Napoli la riorganizzazione è già in corso. I contratti di solidarietà sono iniziati nel novembre 2014, e dureranno due anni. Sono gli stessi contratti che interessano la centrale di Civitavecchia e tutto lo staff aziendale. L’accordo nasce in seguito alla crisi finanziaria dichiarata dalla società due anni fa, che ha prodotto trecentoquindici esuberi su un totale di cinquecento dipendenti; di questi, circa cento sono stati gestiti con una procedura di mobilità, i restanti attraverso i contratti di solidarietà. Tirreno Power al momento è una società in crisi, con una pesante esposizione debitoria nei confronti degli istituti di credito.
«La solidarietà sta portando grosse tensioni – spiega ancora Paudice – perché mette le mani nelle tasche dei lavoratori, crea disagi organizzativi con la soppressione di servizi importanti come la mensa aziendale, poi ripristinata grazie alle nostre pressioni. Molti lavoratori vengono dall’Enel, sono stati assunti in un’azienda pubblica, sono passati al privato con tutte le garanzie, oggi rischiano di finire per strada… Abbiamo dovuto chiedere agli anziani di uscire. La legge sui licenziamenti collettivi prevede che, se non c’è accordo sindacale, i primi ad andare via siano gli ultimi assunti, i più giovani, ma noi cerchiamo di fare accordi per invertire questo criterio».
In passato la centrale di San Giovanni era in funzione H24. Adesso la produzione discontinua rischia di generare anche problemi di manutenzione. Poi c’è la questione dei benchmark. «Ogni azienda del settore – spiega Massimo Infante – struttura il proprio organigramma in base a certi parametri, i cosiddetti benchmark, che occorre rispettare per rimanere competitivi sul mercato. Secondo questi standard una centrale come quella di Napoli dovrebbe avere al massimo una ventina di unità. Il resto dei lavoratori non sono ritenuti necessari e quindi diventano esuberi. Noi adesso abbiamo il sessanta per cento di personale in meno all’interno delle strutture, ma l’attività non è per niente cambiata. Con questi parametri siamo in difficoltà. Anche disporre di una sola persona in più rappresenta un problema per gli azionisti. Questi benchmark sono stati progettati per essere applicati a una centrale greenfield: una centrale creata ex novo con le migliori tecnologie disponibili, sia in ambito industriale che organizzativo. Solo una centrale di questo tipo può consentire l’applicazione di parametri così restrittivi».
La centrale di Napoli non è certamente greenfield, ma di sicuro è la più nuova tra quelle di Tirreno Power. «Dieci anni fa eravamo duecento – dice Infante –. Io sono entrato quattro anni fa e ci lavoravano ottanta persone. Oggi dopo le ultime fuoriuscite siamo ancora meno, nettamente sotto organico».
Prima di entrare alla Tirreno, Infante lavorava in un’azienda che si occupava della gestione dei servizi primari – luce, acqua, ecc. – all’interno dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco. «Entrai a diciotto anni – racconta –. Sette anni dopo, tramite un’agenzia di lavoro interinale ho avuto la possibilità di essere assunto qui. In Fiat si faceva cassa integrazione e le prospettive non erano delle migliori. La Tirreno Power nasceva da un colosso come Enel e offriva maggiori garanzie. Poi finalmente avevo la possibilità di fare il chimico, il lavoro per cui ho studiato».
Il paradosso che i benchmark ai quali l’azienda fa riferimento impongono una riduzione del personale così restrittiva da indurre, per far fronte alle difficoltà, la stessa azienda a stipulare contratti con ditte esterne per lavorare all’interno della centrale. «Queste attività – spiegano i lavoratori –, se le facessimo noi avrebbero un costo inferiore. Con il sindacato stiamo cercando di ricondurre all’interno tutte le attività che l’azienda ha esternalizzato negli scorsi anni. Ci sono forti resistenze da parte dell’azienda a questa nostra proposta».
«Se usciamo da questa azienda non abbiamo più nessuna speranza – dice Paolo Grasso –. Io sono entrato in Enel come informatico nel 1992 tramite concorso pubblico. Prima di Enel ho avuto due esperienze lavorative, sempre come informatico. Oggi mi tocca fare tutt’altro perché l’attività informatica è stata esternalizzata. Noi avevamo una centrale fotovoltaica a Sessa Aurunca, di cui ero responsabile, che è stata venduta dall’azienda per risanare i debiti contratti con le banche. Era una centrale molto produttiva. È stata acquistata da un fondo d’investimenti inglese. In sostanza, con i contributi pubblici per le rinnovabili stiamo pagando le pensioni agli inglesi… Quello che ci auspichiamo, e per il quale si sta lavorando anche con il sindacato, è la messa in sicurezza dei conti della società, senza la quale tutti i discorsi sul futuro non valgono nulla. Dopodiché bisognerà capire se questa società vorrà avere una continuità industriale che ci permetta di guardare al futuro con un po’ più di speranza».