domenica, Novembre 24, 2024
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“La pazza della porta accanto” scuote il Teatro Stabile

Alessandro Gassmann porta in scena un ritratto giovanile di Alda Merini

– “Avete preso le mie impronte digitali, le rivoglio!” – con questa frase la poetessa rivela e avverte sin da subito come in quel luogo inizierà un processo distruttivo che cercherà di annientare la sua identità, la sua stessa anima. Il medico la osserva con sguardo clinico, incapace di cogliere la profondità delle sue parole: i pazienti sono solo delle cavie da sedare, e Alda sta per diventare una di loro.

Ieri sera il teatro Stabile di Catania era gremitissimo, soprattutto di giovani, per la prima rappresentazione de “La pazza della porta accanto”, da un’idea di Claudio Fava che ha dipinto a parole un ritratto giovanile di Alda Merini, la poetessa mistica dei Navigli.

Alessandro Gassmann ne è rimasto così affascinato che ha colto subito l’occasione per farne una trasposizione teatrale. Il risultato è stato uno spettacolo denso di emozioni che ha riaperto la tragica ferita inferta dagli istituti psichiatrici negli anni precedenti all’approvazione della legge Basaglia, quando ancora la “depressione” non si conosceva e chiunque ne soffrisse era emarginato e trattato come un matto da internare.

I primi personaggi a comparire sulla scena sono una suora e un’infermiera: parlano delle loro storie d’amore clandestine con una certa naturalezza, in contrapposizione al divieto di amare vigente per i pazienti all’interno del manicomio.

Dopo questa scena-premessa, si viene catapultati all’interno dell’istituto psichiatrico: una giovane donna, Alda Merini appunto, viene fatta entrare nello studio del dottor G. che la sottopone a un colloquio abbastanza sbrigativo, dove l’esito finale è rimanere dietro le sbarre per farsi curare.

Naturalmente lei si oppone, non vuole, non riesce nemmeno a credere che dovrà rimanere lì. Quando la rinchiudono in cella con le altre pazienti, queste non fanno che deriderla perché Alda non solo è “matta” come loro ma è anche una poetessa, motivo in più per schernirla.

 Il suo modo di incastrare le parole però incanta, seduce, quasi lenisce i loro dolori. La sua poesia scuote come l’elettroshock cui vengono sottoposte. Alla fine dello spettacolo è come se scoprissero di parlare tutte lo stesso linguaggio, incomprensibile alle persone “sane” ma terribilmente autentico, che restituisce la profondità delle loro anime “partite da molto lontano” e giunte lì, in quel posto angusto, dove non c’è domani, dove ogni giorno è uguale all’altro, dove si è destinati “ad indossare quelle pareti” senza poter fare nulla per scrollarsele di dosso.

Tra medicine, soprusi e urla disumane si consuma un’esistenza che somiglia alla morte. Ma ecco che un giorno accade il miracolo della resurrezione: Alda incontra Pierre, un altro “matto”. I due si innamorano in un trionfo di tenerezza che non scorge limiti. “Siamo liberi, Pierre!” – gli urla Alda in un momento di impeto. E ci credono così tanto che l’amore possa sopraelevarli che arrivano a concepire una bambina. Ma il culmine del loro sentimento coincide con la discesa negli inferi: i medici tolgono la bambina ad Alda e la separano da Pierre che viene ricoverato in un altro istituto. Ma Alda non si arrende: scappa, attraversa la città e raggiunge Pierre. Ma non ritrova l’uomo che l’aveva amata, ma un uomo distrutto dalla paura che le dà il colpo di grazia: loro sono matti e non possono amarsi come Romeo e Giulietta. Non potranno mai perché la società continuerà a precludere loro ogni forma di sentimento. Pierre la manda via. Per Alda sembra la fine, tant’è che torna in manicomio rassegnata al destino che la aspetta in quelle mura.

Quella fine coincide con un nuovo inizio: è il 1978, l’anno in cui viene approvata la legge Basaglia, che prevede la chiusura dei manicomi. Alda trova la sua cella aperta e il medico le comunica che può riprendere i suoi vestiti, le sue poesie, persino le sue impronte digitali. Lei e le altre pazienti adesso possono tornare a casa. L’ultima scena vede recitare i versi di una poesia di Alda, è proprio lei che inizia questo doloroso canto: – “Io come voi sono stata sorpresa /mentre rubavo la vita, /buttata fuori dal mio desiderio d’amore. /Io come voi non sono stata ascoltata /e ho visto le sbarre del silenzio/ crescermi intorno e strapparmi i capelli (…)”.

Perfetta l’interpretazione di Anna Foglietta nei panni di Alda: tragica, straziante, a tratti giocosa. In alcuni istanti le sue urla facevano sussultare dalla poltrona per lo sgomento così realistico che suscitavano.

Meravigliose pure Alessandra Costanzo, Sabrina Knaflitz, Cecilia Di Giuli, Stefania Ugomari Di Blas e Giorgia Boscarino nei ruoli delle pazienti che affiancano Alda. In manicomio perdono la loro identità e vengono assimilate a lettere dell’alfabeto diventando Elle, Zeta, Enne, Erre ed Emme: chi si atteggia a ninfomane, chi assume movenze da scimmia, chi da attrice teatrale, chi se ne sta in disparte con lo sguardo perso nel vuoto e chi si atteggia a “bullo” della situazione, tutte restituiscono alcune sfaccettature delle malattie mentali.

Una dimensione a parte è quella di Pierre interpretato da Liborio Natali che indossa i panni del personaggio più debole con una disinvoltura toccante che intenerisce.

Il personale sanitario è interpretato da Angelo Tosto nei panni del Dottor G, Olga Rossi in quello della caposala e Gaia Lo Vecchio in quello dell’infermiera: cinismo, freddezza e noncuranza caratterizzano questi ruoli che controbilanciano l’emotività sfrenata dei ricoverati in manicomio.

Le musiche di Pivio e Aldo De Scalzi si intonano con gli stati d’animo di inquietudine dei protagonisti, divenendo quasi un tutt’uno. I costumi curati da Mariano Tufano sono semplici nelle forme e nei colori. La scenografia, curata dallo stesso regista Alessandro Gassmann, che definisce “claustrofobica”, sembra inghiottire chi è costretto a vivere segregato in quel reparto psichiatrico: l’impianto scenico stupisce e spezza il fiato tanto quanto la trama. Spettacolare anche il disegno luci curato da Marco Palmieri e le videografie di Marco Schiavoni: le scene sembrano connotate dallo stesso buio che alberga negli animi dei “matti”, ma flebili luci si insinuano come se incarnassero la speranza degli stessi. Le videografie infine conferiscono quel tocco di poeticità scenica che completa un cerchio denso di emozioni: un lenzuolo che avvolge, dei fogli di poesie che piovono dal cielo, fiamme che bruciano come i dolori dell’anima. Allucinazioni visive che rimandano alla poetessa rendendocela ancora più cara.

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