venerdì, Novembre 22, 2024
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Economia delle relazioni o economia del Pil?

Un tempo, l’economia era la “scienza umana” per eccellenza. Per qualcuno, può esserlo ancora

Stefano Bartolini insegna economia politica a Siena e fa parte di quella nuova leva di studiosi che si s’è presa l’onere di spiegare la seconda grande crisi del capitalismo, oltre i numeri e le analisi strettamente finanziarie, cercando di cogliere la complessità che si è aperta davanti a noi e a tutte le società occidentali e non. Il suo recente “Manuale per la felicità: come passare dal ben-avere al ben-essere” (Donzelli), raccoglie dieci anni di osservazione e studio della storia economica, sociale e culturale, dagli Stati Uniti all’Italia, che ha avuto come epilogo il black-out finanziario del luglio 2007 e la crisi economica che è poi sopraggiunta.

Professor Bartolini, possiamo definire il 2007 la seconda grande crisi del capitalismo, come è opinione comune, oppure, come invece lei in qualche modo ci induce a riflettere con le sue analisi, il vero disvelamento del capitale, nella sua più intima essenza?

Il modello capitalista con la crisi iniziata a luglio 2007 ha senza dubbio tradito la sua promessa: vi renderò tutti più felici, a tutti sarà data la possibilità di usufruire di condizioni di vita migliori. Come in parte ha fatto, almeno fino ad un certo punto. Il capitalismo è stato senza dubbio uno strumento per superare indigenza, malattie, ingnoranza, disparità tra i sessi, condizioni di vita complessivamente misere. Ma negli ultimi decenni è divenuto un capitalismo zoppo, soprattutto quello statunitense, perché ha camminato solo sulla gamba dei consumi garantiti dalla maggiore ricchezza a disposizione. Mentre l’economia diventava economicismo al seguito del totem del Pil.

In questi ultimi anni gli economisti di tutto il mondo stanno infatti rivedendo gli indici economici che posso realmente darci la misura della condizione di una società. La sua proposta è quella di sostituire il Pil con un nuovo indice della felicità?

Il Pil è un ottimo indicatore dello stato della congiuntura economica, un elemento importante ma non sufficiente a comprendere la complessità del ben-essere sociale. Una società non funziona a compartimenti stagni, né l’individuo può esistere solo come un’isola. La coesione sociale in larga parte del mondo occidentale è stata sopperita dal consumo e più ci si è trovati soli più si è consumato fino ad indebitarsi all’inverosimile. Questa dinamica perversa è stata più acuta negli Stati Uniti. In questo circolo vizioso il capitalismo ha tradito: ha reso uomini e donne sempre più infelici, soli e poveri di tempo. E per compensazione sempre più consumatori. La vecchia economia del Pil deve essere soppiantata da una nuova economia delle relazioni, umane, sociali, lavorative. Una società relazionale.
In una parola un’economia che sappia ridare slancio a quell’idea di fare comune che è stata spazzata via dall’individualismo e dalla rincorsa edonista di questi ultimi trent’anni di sviluppo capitalista. Si badi bene, il mio non vuole essere un semplicistico attacco alla modernità. Lo sviluppo che abbiamo conosciuto dal secondo dopoguerra fino ad oggi, ha subito un implosione. E’ il cosiddetto nuovo capitalismo Neg, Negative endogenous growth, crescita endogena negativa.

Ci può spiegare meglio l’evoluzione di questo capitalismo Neg, a crescita endogena negativa, di cui lei e altri economisti parlano in questi anni?

L’aumento dei consumi come rivelano gli studi che ho compiuto insieme ad altri economisti, sono la cartina di tornasole della condizione di infelicità. La crisi finanziaria e poi economica che è seguita al super indebitamento delle famiglie statunitensi e che ha contagiato tutto il mondo occidentale è il risultato del capitalismo Neg. Questo tipo di capitalismo è radicato soprattutto negli Stati Uniti La competizione sovietica produceva una pressione per l’umanizzazione del capitalismo. Dagli anni Ottanta in poi, con il declino e poi il crollo del sistema socialista, è venuta meno la spinta verso un capitalismo dal volto umano. Da allora sempre più la gente è stata fatta per l’economia anziché fare l’economia per la gente. Il capitalismo ha dato il peggio di sé. Oggi produce cioè infelicità, instabilità, povertà. E isolamento, una condizione che confligge con la nostra biologia.

Ma Europa e Stati Uniti presentano però un percorso diverso rispetto a questo tipo di capitalismo sostanzialmente involutivo che lei ha analizzato in questi anni nelle sue ricerche.

L’Europa ha avuto un’evoluzione diversa rispetto agli Stati Uniti. Il risultato è stato che mentre la felicità e la qualità della vita relazionale dell’americano medio sono peggiorate negli ultimi decenni, quelle dell’europeo medio sono leggermente migliorate o sono rimaste stabili. Inoltre in Europa gli orari di lavoro sono generalmente diminuiti mentre in America sono aumentati, rendendo la pressione sul tempo un fenomeno assai più estremo negli Usa.
Quello europeo è stato un capitalismo più sociale, che garantiva istruzione e sanità pubbliche, un sistema pensionistico e misure di welfare, più protezioni per il lavoro; tutto questo ha garantito meno diseguaglianze e dunque più coesione sociale. Invece negli Stati Uniti una organizzazione economica, sociale e culturale ossessivamente votata al possesso e alla competizione ha generato, a partire dagli anni Ottanta, un circolo vizioso ha portato alla crisi del 2007: meno felicità, più consumi, ancora meno felicità.

In questo quadro mondiale, tra i capitalismi Europeo e statunitense, dove e come si colloca l’Italia dal suo punto di vista?

L’Italia ha potuto beneficiare di tutti gli aspetti positivi di un capitalismo più sociale. Inoltre ha una peculiarità che manca ad altri paesi europei, quella di avere un tessuto industriale fatto di distretti, un sistema locale di piccole imprese che in cui i legami sociali e comunitari giocano un ruolo importante. Inoltre in questi sistemi è stata da sempre molto forte la mobilità tra capitale e lavoro. L’operaio specializzato ha aperto la sua micro impresa, si è messo in proprio o ha organizzato piccole società con altri lavoratori. Oggi il nostro paese si trova però in mezzo ad un guado.

Sta somigliando sempre più agli Stati Uniti, grazie ad una colonizzazione culturale che non ha paragoni in altri paesi europei, e questo riguarda soprattutto le nostri classi dirigenti economiche, e politiche che stanno prendendo la strada del modello iper competitivo americano. A questo si aggiunge l’anomalia di un mercato del lavoro che è divenuto sempre più duale, da una parte le garanzie inossidabili del pubblico impiego e della media grande industria, dall’altro la deregolamentazione selvaggia che ha prodotto la flessibilità e i nuovi contratti di lavoro atipici.
Fa da cornice a tutto questo un sistema di welfare incongruo rispetto alla nuova società che abbiamo di fronte. Quello che succederà nei prossimi anni dipenderà da come la classe politica saprà affrontare queste grandi sfide sociali ed economiche.

Quindi secondo lei il nuovo accordo Fiat va nella direzione di un capitalismo a rischio di implosione, per essere sintetici?

L’accordo Fiat e l’approccio Marchionne fanno parte di quello stile di management anglosassone, competitività a prezzo di super sfruttamento del lavoro, che non ha prodotto alcun successo industriale come è avvenuto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, che hanno pagato con una forte deindustrializzazione. Ci sono altri approcci manageriali, come quello tedesco, che hanno funzionato meglio e che si concentrano invece sull’innovazione, su l’ideazione di nuovi modelli automobilistici e su relazioni cooperative con i lavoratori e le rappresentanze sindacali.

Se dovesse dettare un’agenda politica per fronteggiare la condizione di disagio che sta vivendo il Paese…

Una riforma urbana: mobilità sostenibile e qualità degli spazi pubblici. Ridiamo valore agli urbanisti che purtroppo sono scomparsi nel ruolo di progettisti delle relazioni e quindi della qualità della vita. Una riforma della scuola che sappia sostenere non solo intelligenze cognitive ma intelligenze emotive e creative dei più giovani e sappia ridare agli studenti un ruolo attivo nella proposta scolastica. Una riforma sanitaria che sposti la prevenzione fuori dai sistemi sanitari claustrofobici, ospedali, laboratori di analisti, e che sappia trasformare il rapporto medico paziente in una relazione terapeutica già in sé. Una riforma del mercato del lavoro e del sistema dei contratti che esca dal dogma del tempo indeterminato e dal mito della flessibilità come panacea.

Quanto alle politiche finanziarie internazionali…

La deregolazione finanziaria ha creato un mondo in cui tutti i tipi di istituzioni finanziarie possono comprare e vendere tutti i tipi di prodotti finanziari. La libertà internazionale di movimento dei capitali seguita al crollo di Bretton Woods negli anni ’70, ha profondamente modificato le abitudini dei risparmiatori di tutto il mondo. Ad es. in Italia, fino agli anni ’70 le occasioni di investimenti finanziari erano limitate sostanzialmente alla inaffidabile borsa italiana e ai Bot. La liberalizzazione ha creato un mondo di occasioni finanziarie. In questa nuova era dove si sono prevalentemente diretti i capitali del mondo? Ovviamente verso i paesi più affidabili e le piazze finanziarie più grandi. Cioè verso gli Stati Uniti.
È così che Wall Street ha finito per assorbire gran parte dei capitali del mondo e, quel che è peggio, del Terzo Mondo. I ricchi dei paesi poveri hanno sottratto i capitali da dove ce n’era più bisogno, per spedirli nel paese più ricco del mondo. Così l’estrema diseguaglianza tra i paesi del mondo in tema di credibilità e di dimensione delle piazze finanziarie ha finito per finanziare i consumi del paese che già consumava di più.
In questo modo una crisi americana si è trasmessa al mondo. Perché più o meno tutto il mondo aveva titoli del debito delle famiglie americane e il motivo è che la proliferazione dei titoli era avvenuta basandosi su tale debito. Ed era avvenuta in modo da non poter più riconoscere la qualità dei titoli, cioè la loro rischiosità.
Non riesco a immaginare altre soluzioni efficaci diverse dal revocare i cambiamenti legislativi che hanno permesso l’oscura cartolarizzazione del debito americano, limitare la speculazione ri-regolando il mercato in modo da segmentarlo e porre limiti alla mobilità internazionale dei capitali finanziari.

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