venerdì, Novembre 22, 2024
-rete-EditorialiSocietàStorie

E poi venne il giorno

La malattia all’improvviso

E poi venne il giorno in cui la tua vita fu messa in discussione. Arrivò il giorno in cui diventasti un numero. Arrivò quel giorno e fu preciso e tagliente come un bisturi nelle mani di un esperto chirurgo. Tanti gesti, tante parole pronte a tagliuzzarci cervello e cuore.

Fummo trasportati da un giorno all’altro dentro un vortice di sensazioni dove confusione, determinazione, sconforto e lucidità, cercarono di sopraffarsi, di avere la meglio l’uno sull’altro.

Dove andare? Che fare? Quale ospedale? Quale dottore?

La famiglia si stringe, la famiglia si divide.

Poi, tutto come un puzzle, si scompone, per ricomporsi di nuovo.

E si va avanti, con la gioia di un giorno nuovo.

False speranze non ce ne hanno mai date, ma un numero si.

E con questo numero, delle date, degli appuntamenti, una stanza, gentilezza e sorrisi.

La speranza di guarire ti dà una forza inaspettata, forza che poi ti abbandona quando ti dicono che non c’è più nulla da fare. E lì cominciasti a rimbalzare dal letto d’ospedale dove eri stata operata a quello del centro che ti aveva preso in cura, a quello di un pronto soccorso che nulla c’entrava, sporco e inadeguato. Oltre la consapevolezza di dover presto morire e la paura delle sofferenze, anche le umiliazioni. Ma non dovrebbe essere doveroso garantire al malato una tutela della sua dignità come persona e una sua qualità di vita, visto che non è dato scegliere quando morire?

Adesso bisogna solo pensare a farti soffrire il meno possibile.

La tua fede ti ha rassicurata sulla continuità della vita, oltre la vita terrena. Anche se in Italia fosse stata legale l’eutanasia (la dolce morte), avresti deciso di andare avanti fino alla fine.

Io non ho mai creduto a una strada che ci conduce all’aldilà, ma ti sostenevo e tu non ti imponevi.

“Non curarti del corpo ma dell’anima”, mi dicesti.

È giunto il momento del reparto “cure palliative”. Cure che sono a tempo determinato. Dopo un periodo di degenza, ci congedano con la terapia domiciliare, richiesta di cartella clinica e tanti calorosi auguri.

Scegliamo una Onlus. Viene un dottore ogni due-tre giorni, è gentile e quasi sempre reperibile. C’è anche l’infermiere che una volta al giorno pratica le terapie prescritte dal medico, lascia disposizioni alla famiglia su come eseguire la terapia e si precipita da un altro assistito. Fin quando le tue condizioni fisiche erano discrete, tutto procedeva abbastanza bene. Ci sentivamo capaci ed eravamo quasi sereni perché, nonostante tutto, in casa continuava ad aleggiare un odore di schiacciate, biscotti e crostate. Tutto questo fino a quando le tue gambe non hanno più retto il peso di un corpo ormai esausto.

La situazione precipita e il dolore non si placa.

Per quanto bravi e disponibili gli infermieri, e lo sono davvero, la terapia domiciliare non potrà mai sostituire quella di un ospedale dove dottori e infermieri sono a tua disposizione 24 ore su 24 e i familiari vengono aiutati a sopportare il trauma della perdita.

Chiamiamo il dottore al centro oncologico:

“Mia madre ha bisogno di una terapia del dolore ospedaliera, sta male”.

“Ma da noi è stata congedata con terapia domiciliare… Aumentiamo le dosi di morfina”.

“Si, ma sta soffrendo e noi non siamo così lucidi da aiutarla come vorremmo. Avete intenzione di occuparvi di lei fino alla fine come promesso?”.

“Al momento non ci sono posti. Faccia una chiamata dopo le feste, va bene? Stia tranquilla”.

A quel punto, ci siamo ritrovati soli e smarriti.

Morfina, morfina, morfina.

La famiglia si divide, la famiglia si unisce.

Nessuno ha mai richiamato per sapere come era finita. Nessuno fra tutti i dottori e collaboratori. Nessuno dall’Ismett di Palermo (Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione), nessuno dallo IOM di Catania (Istituto Oncologico del Mediterraneo).

Eri evidentemente un fascicolo già chiuso.

Pensavamo potesse essere un percorso medico più dignitoso, invece proprio quando stava per finire, nel momento più importante, è stato molto frustrante e approssimativo.

Ce ne sono tanti, siamo tanti, una vera e propria catena. Te ne rendi conto solo quando ci sei dentro.

Qualcuno mi ha detto e continua a dire, forse per consolarmi: “Ma che vuoi farci? Hanno tanti pazienti”. E allora torniamo al mio discorso: numeri.

Siamo numeri, anche se sulla cartella clinica c’è un nome, un cognome, una foto, una data di nascita, una storia.

La famiglia si divide, la famiglia si unisce tra solitudine e dolore.

L’esperienza familiare e quella personale, ha rafforzato in me l’idea che il “testamento biologico”, e quindi la libertà di scegliere, non costituisce che un atto altruistico e democratico. Attualmente penso che tenere in vita una persona quando non vi è più alcuna speranza di ripresa, riducendola a uno stato vegetativo, vuol dire annientare la vita stessa. Per mia madre invece il suicidio assistito sarebbe stato un atto impensabile. Due opinioni, ma nessuna scelta.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *