domenica, Novembre 24, 2024
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Il viaggio di Leila

Dal campo di Shatila (vi ricorda qual­cosa?) alla Svezia, fra fughe e arrangiamenti, con suo marito. Ce la faranno? 

Non so quanti sorriderebbero al suo po­sto. Eppure il sorriso di Leila, dolcis­simo, è uno di quei sorrisi ras­sicuranti e pieni di speranza. Leila ha ventitré anni e vive nel campo profughi di Sha­tila, periferia sud-ovest di Beirut. Lo stesso che insieme a Sabra, nel 1982, fu attaccato dai falangisti libanesi e dall’esercito israeliano con un massa­cro di civili inermi, prevalente­mente palestinesi e sciiti libanesi. 

Nello stesso campo profughi, fatto di vicoli tor­tuosi, latrine a cielo aperto e fili dell’elet­tricità scoperti, oggi vivono, in­sieme ai palestinesi, migliaia di profughi siriani palestinesi giunti qui dall’inizio del con­flitto in Siria.

Anche Leila è una rifugiata. Ha lasciato Aleppo con tutta la sua famiglia, quando è stato evacuato il campo di Handarat. In Siria viveva in un campo per palestinesi, ma niente a che vedere con quello di Bei­rut. Aveva una vita normale ad Aleppo; studiava all’università, usciva con le ami­che. Poi la guerra e la fuga in Libano.

Con lei c’è la madre liba­nese, il padre anziano, malato e preso in cura dall’Agen zia dell’Onu per il Soccorso e l’Occupa­zione dei profughi palestinesi (UNRWA), la sorella con le tre fi­gliolette e il marito.

Questi ultimi sono appena stati selezionati dall’UNRWA, come famiglia idonea a trasferirsi negli Stati Uniti. Avranno tutto: casa, corso di inglese, assicurazione e scuola per le bambine. 

Leila non trattiene le lacrime alla noti­zia. E’ una grande occasione per la sorel­la; ricostruirsi una vita laggiù, dare la possibilità alle bambine di andare a scuo­la e vivere un po’ di serenità. Quella che silenziosamente sta cercando anche lei.

In questo momento lavora per una pic­cola organizzazione non governativa all’interno del campo profughi, Welfare Association, impegnata nella ristruttura­zione delle case occupate dai rifugiati ne­gli ultimi tre anni; piccoli lavori di manu­tenzione –uno scaldabagno, una finestra, un soffitto, una porta– per rendere vivibili questi alloggi, se tali si possono definire.

Con questa Ong, Leila effettua il moni­toraggio sullo stato dell’avanzamento dei lavori e fa da interlocutrice con i proprie­tari degli shelters (letteralmente “rifugi”), come vengono definiti nel mondo della cooperazione. E’ un progetto che le ha dato la possibili­tà di pagare il viaggio al marito, palesti­nese come lei, scappato dal Libano un mese fa. Duemi­laecinquecento dollari dati ad un’organiz­zazione crimina­le per passa­porto e visto falsi e per il viaggio fino in Turchia.

Oggi, gli occhi di Leila sono un bagno di gioia. Il marito le ha appena in­viato un messaggio: è arrivato in Turchia. Non sa come, non sa con chi. Sa solo che è vivo. La prossima tappa sarà entrare in un pae­se membro di Schengen e da lì fino al loro sogno, la Svezia.

E’ il sogno di tanti rifugiati, raccontato anche in un bellissimo film, “Io sto con la spo­sa”, interamente finanziato dal basso. Una favola moderna, drammatica­mente vera, i cui protagonisti – cinque si­riani e palesti­nesi – cercheranno di rag­giungere la Sve­zia con un finto corteo nu­ziale.

Da quando è iniziata la guerra civile in Siria, a marzo 2011, più di un milione e mezzo di persone sono fuggite nei paesi limitrofi –Turchia, Egitto, Giordania, Li­bano ed Iraq–, in cui oggi si vive una for­te emergenza profughi. 

“Solo un profugo su duecento” 

I paesi membri dell’Unione Europea si sono resi disponi­bili a ricevere solo 12.000 persone, lo 0,5% dei siriani che hanno lasciato il pae­se. Per gli altri non resta che rischiare un viaggio pericoloso via terra o via mare, mettendosi nelle mani delle organizzazio­ni criminali spe­cializzate nello smuggling di esseri uma­ni, e sperare così di raggiun­gere la fortez­za Europa.

Secondo un rapporto delle Nazioni Uni­te, la tratta di esseri umani costituisce una delle fonti più proficue di reddito per la criminalità organizzata transnazionale dopo il traffico di droga.

Data la natura del fenomeno, sommerso e illegale, non è possibile offrire dati con­cernenti i profitti ma è possibile fare una stima indiretta. Solo per la traversata via mare o per i documenti, in media un mi­grante paga duemila euro ma le stime sono di gran lunga sottostimate, sia per­ché non tengono conto delle altri fasi del viaggio, sia perché non considerano il nuovo flusso di migranti provenienti dall’Egitto o dalla Siria, in grado di paga­re fino a quindicimila euro. 

E i trafficanti ringraziano l’Europa 

E’ l’effetto perverso delle politi­che mi­gratorie vigenti oggi nei paesi membri dell’Unione Europea: mettere nelle mani dei trafficanti persone vulnera­bili, costret­te a spendere i propri risparmi e a rischia­re la vita, facendo di fatto arric­chire le or­ganizzazioni criminali specia­lizzate nello smuggling e nel trafficking.

Leila torna a sorridere. Sa che la parte peggiore del viaggio è stata superata. O almeno così spera. Inshallah.

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