La morte dimenticata di Francesco Vecchio
“So chi ha ordinato la morte di mio padre, ma probabilmente non verrà mai condannato”
«Come erano quei giorni? Difficili. Lui cercava di non allarmarci, ma avevamo paura. Una volta fui io a rispondere al telefono e ad ascoltare le minacce». Salvatore, figlio di Francesco Vecchio, l’imprenditore originario di Acireale che venne crivellato di colpi di arma da fuoco il 31 ottobre 1990 nella zona industriale di Catania, oggi vive e lavora lontano dalla Sicilia ma non per questo si è messo dietro le spalle quella terra che oltre ad avergli dato i natali gli tolse il padre, ucciso dalla mafia.
«So chi ha ordinato la morte di mio padre, ma probabilmente non verrà mai condannato» dichiara al telefono Salvatore.
L’assassinio di Vecchio – ucciso di ritorno dal lavoro insieme ad Alessandro Rovetta, l’amministratore delegato dell’Acciaieria Megara, la società per la quale l’imprenditore acese lavorava come direttore del personale – è infatti uno dei pochi delitti eccellenti che negli anni non hanno registrato un passaggio giudiziario. Nessun processo, nessun imputato. Soltanto delle indagini finite ben presto nel dimenticatoio.
Eppure, che dietro l’omicidio dei due ci fosse stata una regia mafiosa lo si era pensato sin da subito: nei mesi precedenti, diversi erano stati gli episodi intimidatori attraverso i quali ignoti avevano avvertito Vecchio di smetterla, di farsi gli affari propri se non voleva che finisse male.
«Quella volta in cui fui io a prendere la cornetta – ricorda Salvatore – mi dissero che mio padre era un ‘cornuto’, che ci avrebbero ammazzati».
Per capire i motivi che portarono Vecchio a rendersi inviso agli occhi di chi di lì a poco sarebbe passato dalle parole ai fatti, bisogna tornare un po’ indietro nel tempo: l’Acciaieria Megara già da tempo era entrata tra gli interessi della malavita organizzata, grazie all’aggiudicazione di un finanziamento di 60 miliardi di lire con il quale la ditta, che già occupava un posto di rilievo nel settore, avrebbe puntato a un ulteriore ampliamento.
A lavorare nei cantieri erano diverse cooperative che – a detta di Salvatore Vecchio – non erano esenti dalle infiltrazioni mafiose: «I problemi per mio padre iniziarono quando gli viene affidata anche la gestione del personale delle cooperative, che fino a quel momento era stato sotto il controllo del direttore dell’ufficio tecnico.
In quelle cooperative – spiega il figlio della vittima – lavoravano anche diversi detenuti con permessi speciali; persone che fino a quel momento avevano avuto la libertà di non presentarsi al lavoro senza che nessuno obiettasse alcunché».
Fino a che Vecchio non decise di intervenire.
Da lì in poi, la vita dell’imprenditore acese fu un susseguirsi di preoccupazioni e minacce fino all’epilogo più tragico.
«In realtà mio padre denunciò quelle minacce – dichiara Salvatore – ma, quando andammo in questura dopo l’omicidio, ci dissero che a loro non risultava nulla».
Le indagini si sarebbero arenate poco dopo lasciando a carico di ignoti la responsabilità del gesto, ma nonostante ció la famiglia di Vecchio ha continuato per anni a cercare qualche brandello di verità, qualche elemento utile che potesse ridare respiro all’attività dei magistrati.
Una testimonianza sepolta
Ciò si concretizza diciotto anni dopo, con una scoperta quasi fortuita che lascia di stucco Salvatore: «A ordinare l’omicidio è stato il clan Santapaola-Ercolano, e a dirlo non sono io ma un pentito di primissimo livello». Fu Maurizio Avolta, storico pentito della mafia catanese, nel lontano 1994, a colloquio con i magistrati della Procura di Messina, a raccontare alcuni dettagli del duplice omicidio Vecchio-Rovetta.
Di quella testimonianza, però, non se ne fece nulla; anzi, per dirla tutta, fino al 2008 non è mai emersa: «Ho trovato questa parte di interrogatorio all’interno del fascicolo delle indagini – afferma Vecchio – e mi stupisco di come all’epoca dei fatti i magistrati non abbiano approfondito il loro lavoro partendo dalla testimonianza di un pentito su cui si è tantissime volte fatto affidamento».
La scoperta ha riacceso la speranza, ma per poco: «Ho fatto richiesta di riapertura delle indagini ma a distanza di anni è difficile trovare un altro pentito che accrediti la versione di Avola, così da poter portare a dibattimento quelle accuse».
“Passare ad atti concreti, quotidiani”
A distanza di venticinque anni, tuttavia, qualcosa sembra risvegliarsi, almeno per quanto riguarda la memoria: il Comune di Acireale ha annunciato poche settimane fa la volontà di intitolare un piazzale alla memoria di Francesco Vecchio. Per farlo bisognerà attendere che l’iter burocratico faccia il suo corso, ma quel giorno Salvatore sarà presente: «Spero di portare in città anche don Ciotti. Ricordare è importante – conclude – ma è giunto anche il momento di passare ad atti concreti, nella quotidianità. La retorica dell’antimafia non ha più senso».
quando e morto?
Sconoscevo la storia di questo Acese e del suo collega, uccisi dalla mafia.
Oltre alla piazza l’Amministrazione Comunale Acese dovrebbe fare altro.
Fare conoscere la storia per modificare la società in meglio.