Un’avventura di Mario Ciancio
A “Repubblica” è in corso un’inchiesta su un certo scempio edilizio in quel di Taormina. Al cronista arriva una telefonata…
Un giorno mi telefonò l’uomo più potente di Sicilia, il dottor Mario Ciancio in persona, colui che da editore dell’unico quotidiano della provincia di Catania, era riuscito a diventare nientemeno che presidente nazionale della Federazione degli editori giornali, predecessore addirittura di Luca Cordero di Montezemolo.
Amico di presidenti della Repubblica, di presidenti del Consiglio, di ministri, di sottosegretari, di presidenti di Regione, di sindaci, di prefetti, di questori, ma anche di boss, al punto da essere incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa; proprietario di terreni agricoli trasformati in immensi centri commerciali; unica persona della Sicilia orientale in grado di dare o di negare visibilità a un politico, quindi l’unica persona in grado di orientare il voto di migliaia di elettori. Ma se quel politico si chiamava Claudio Fava ed era stato il primo degli eletti in Sicilia, e magari denunciava la mafia e i guasti dell’informazione catanese ed era pure colpevole di essere il figlio di un giornalista ucciso dalla mafia, ecco, quel politico doveva essere assolutamente ignorato.
Mario Ciancio era fatto così: aveva una particolare idiosincrasia per le persone con la schiena dritta. L’esperienza con Nino Milazzo gli aveva fatto capire che bisogna sempre diffidare dei giornalisti liberi.
Alla fine degli anni Ottanta, mentre Nino Milazzo era a Milano a fare il vice direttore del Corriere della Sera, Mario Ciancio lo chiamò per fargli dirigere La Sicilia: “Fallo per un atto d’amore verso la nostra città”.
Più che un atto d’amore, quella di Ciancio era l’esigenza di rilanciare l’immagine del suo giornale, andata in frantumi dopo i depistaggi sui delitti Dalla Chiesa e Fava.
Milazzo interruppe la carriera al Corriere, si trasferì in Sicilia ma fu cacciato pochi mesi dopo perché si era messo in testa di denunciare Santapaola, e i Cavalieri del lavoro, e i comitati d’affare, e questo a Ciancio non stava bene.
Stesso destino capitò, molti anni dopo, a una dozzina di cronisti dell’emittente Telecolor che Ciancio aveva acquistato da poco, cronisti con il brutto vizio della verità. A casa anche loro. Come a Varsavia ai tempi del comunismo.
Un potere, quello dell’editore catanese, consolidatosi anche oltre Stretto grazie all’acquisto di quote azionarie di giornali e di tivù commerciali, un potere che scaturiva da un grande fiuto per gli affari, da un attaccamento al lavoro e, secondo le voci più maliziose, dall’appartenenza alla massoneria, ma su questo, onestamente, non ci sono le prove.
Il mega-albergo abusivo
Per Repubblica, allora, mi stavo occupando dello scempio edilizio che – malgrado i rigidi vincoli paesaggistici – si stava perpetuando nella zona di Taormina. Per caso incappai in un mega-albergo che l’editore catanese stava costruendo abusivamente in un luogo bellissimo, considerato inedificabile dal piano regolatore.
Dunque quel giorno mi arrivò questa telefonata di Mario Ciancio, il quale mi spiegava “bonariamente” che era cosa-buona-e-giusta la realizzazione di questo albergo in un posto dove, se un cittadino comune modificava un balconcino, subiva delle pesanti sanzioni, ma se una irregolarità molto più grave la commetteva l’uomo più potente dell’isola, si dovevano chiudere gli occhi.
Il Gruppo De Benedetti
Solo-un-cretino-come-me-può-dare-lavoro-a-tanti-padri-di-famiglia.-Ce-ne-fossero-di-cretini-così.-Risolveremmo-il-problema-della-disoccupazione!
Il Consiglio di giustizia amministrativa di Palermo, accogliendo i ricorsi di cittadini e albergatori che si ritenevano danneggiati da quella costruzione, aveva sospeso i lavori e Ciancio era incazzato perché ci stava rimettendo un sacco di soldi.
Il problema è che il Cga si era pronunciato nello stesso giorno in cui Repubblica aveva pubblicato la prima puntata della mia inchiesta, con tanto di foto della costruzione abusiva. Chi poteva levare dalla testa di Mario Ciancio che si trattava di una semplice coincidenza?
In ogni caso, anche se la sentenza e l’articolo non fossero usciti in contemporanea, Mario Ciancio si sarebbe incazzato lo stesso, per la semplice ragione che, essendo azionista di Repubblica, non poteva consentire che il giornale che lui – negli anni Ottanta, con voto determinante – aveva contribuito a salvare dalle grinfie di Berlusconi, gli facesse saltare uno degli affari più importanti della sua vita.
Quel voto determinante aveva creato un rapporto nuovo fra il Gruppo Ciancio e il Gruppo De Benedetti, aveva aperto scenari inediti e forse imprevisti. Quel voto, decisivo per le sorti di due testate democratiche come la Repubblica e l’Espresso, aveva reso il loro editore vulnerabile nei confronti di Mario Ciancio, che adesso vantava un credito verso De Benedetti.
L’occasione dello sdoganamento di Ciancio si presentò quando Repubblica – come stava accadendo nelle altre regioni italiane – decise di aprire a Catania una redazione per stampare l’edizione siciliana da allegare a quella nazionale. Dal punto di vista imprenditoriale De Benedetti aveva fiutato l’affare. Commercialmente parlando, Catania è la città più vivace della regione, e questo gli avrebbe consentito dei guadagni più alti.
Non sia mai! La Sicilia deve continuare ad essere l’unico quotidiano della provincia, disse più o meno Mario Ciancio. Se Repubblica sbarca a Catania mi toglie lettori. E questo l’editore più potente della Sicilia non se lo poteva permettere.
Non era proprio così, o meglio, non era solo così: dietro l’apparente paura della perdita di lettori c’era molto altro. Perché Mario Ciancio, per promuovere i suoi interessi, ha sempre avuto bisogno del suo giornale: fino a quando poteva tenere sotto scacco i suoi cronisti – magari autoproclamandosi direttore dopo la cacciata di Milazzo – era un conto, ma tenere a bada i giornalisti degli altri, diventava difficile: mica si può stare sempre attaccati al telefono per chiedere agli editori amici di cacciare i cronisti maleducati.
E allora niente redazione a Catania. Infatti la redazione siciliana si aprì a Palermo, ma a due condizioni: che Repubblica venisse stampata nello stabilimento catanese di Ciancio, e che nelle province di Catania, di Ragusa e di Siracusa – dove il monopolio dell’editore catanese è sempre stato fortissimo – Repubblica uscisse sì, ma senza le pagine regionali.
E ora immaginate questa scenetta: se volevo leggere un mio pezzo pubblicato nelle pagine siciliane di Repubblica, dovevo farmi duecento chilometri fra andata e ritorno, recarmi a Giardini Naxos, primo paese al confine fra le province di Catania e di Messina, e comprare il giornale. Una copia di Repubblica con l’edizione regionale mi costava venti euro…
Il Caso Catania
Il Caso Catania non è solo la storia di una città che detiene il primato europeo della criminalità minorile, dell’analfabetismo, dei senza casa, di certi magistrati che acquistano casa dai mafiosi, o di un giornalista ucciso dalla mafia. Il Caso Catania è anche una storia di disagio, di malessere, di solitudine in cui si trovano certi cronisti che in quella città hanno il coraggio di dire no.
Ma scrivevo per Repubblica e ne valeva la pena. Il giornale ospitava frequentemente – in media un paio di volte a settimana – inchieste, reportage, pezzi di cronaca scritti da me.
Le dinamiche di “Repubblica”
Quel viaggio surreale fino a Giardini mi pesava fino a un certo punto perché scrivevo su un quotidiano nel quale valeva la pena di scrivere, il punto di riferimento di tante battaglie democratiche portate avanti sia durante la Prima che durante la Seconda Repubblica. Compravo il giornale, posteggiavo sul lungomare di Giardini e mi divertivo a leggerlo.
Come per incanto mi riportavo nei paesi dove ero stato il giorno prima, tra le case antiche di Palazzo Adriano, dove Tornatore aveva girato “Nuovo Cinema Paradiso”, o di Stromboli dove cominciò la storia d’amore tra Ingrid Bergman e Roberto Rossellini, fra i vicoli di Savoca e di Forza D’Agrò, dove Al Pacino, Robert De Niro e Francis Ford Coppola avevano fatto “Il padrino”, o di Acitrezza dove avevo parlato con i pescatori che avevano interpretato “La terra trema”. A Sciacca per “Divorzio all’italiana”, a Ispica per “Sedotta e abbandonata”, a Ciminna per “Il Gattopardo”, a Partinico per “Il giorno della civetta”.
Andavo e parlavo con tutti, comparse, figuranti, semplici spettatori per farmi raccontare il sogno fantastico e magico del cinematografo.
Alla fine uscivano delle storie bellissime. Le sorelle di Acitrezza che dopo la guerra avevano suscitato scandalo perché erano diventate attrici. Il contadino che si era innamorato di Claudia Cardinale. Alain Delon a Cefalù alla ricerca di donne. Le lettere anonime durante le riprese del Gattopardo. La ragazzina che tentò il suicidio per uno della produzione. Burt Lancaster che voleva dire “minchia” alla siciliana. La casa di Tano Badalamenti distante “cento passi” da quella di Peppino Impastato.
Voltavo pagina e mi imbattevo nei siciliani d’America. Un altro reportage a puntate con viaggi nella Sicilia più arcana alla ricerca dei parenti di Martin Scorsese, di Joe Di Maggio, di Liza Minnelli, di Frank Sinatra per farmi descrivere la fame, i patimenti, le origini di chi era diventato famoso oltreoceano.
Intere pagine piene di fantasticherie ma anche di vicende attuali, Cosa nostra, la massoneria, la mala politica, la morte di Craxi, la cultura in provincia, il paese più piccolo della Sicilia, la città con più disoccupati, i baraccati di Messina, l’inquinamento e le violenze di Gela, la mafia di Barcellona Pozzo di Gotto, l’inganno del Ponte sullo Stretto.
Scrivere per Repubblica mi dava la possibilità di essere conosciuto in tutte le città della Sicilia, tranne che nella mia.
Avete presente l’inviato di un giornale che manda i suoi pezzi dal buco più impensato del mondo, dove non c’è telefono, luce elettrica, ufficio postale, e dove non arrivano neanche i giornali? Quello ero io! Scrivevo sempre, ma se volevo uscire dal buco in cui ero rintanato, dovevo avere a disposizione una cinquantina di Euro a settimana e una macchina per comprare una copia di Repubblica.
E così un giorno mi recai per la prima volta in redazione a Palermo. Oooh-ma-sei-tu-Luciano-Mirone?-Che-piacere!-Noi-da-qui-ti-seguiamo-sempre. Nel giro di dieci minuti si raccolse una decina di giornalisti che mi chiedevano le cose più impensate… Il cronista di punta addirittura mi fece leggere in anteprima il pezzo che stava scrivendo, dimmi-cosa-ne-pensi.
Di assunzione manco a parlarne, la-redazione-è-in-sovrannumero… Per qualche tempo fu il mio cruccio, poi mi accorsi che era il mio punto di forza: mi consentiva di essere libero da qualsiasi condizionamento.
Chiedo scusa se parlo di me. Se lo faccio è perché – attraverso questa storia – vorrei raccontare il livello di democrazia di un Paese, ma anche le dinamiche che attraversano un giornale come Repubblica.
Dopo quella prima puntata sull’abusivismo a Taormina, conobbi altri retroscena, e mi accingevo a scrivere la seconda, dando la parola a tutti.
Dopo aver raccolto una notevole mole di materiale, telefonai al presidente dell’Unione albergatori siciliani – socio di Mario Ciancio – che avevo intervistato in occasione della prima puntata.
“A lei non rilascio interviste”
Era lui, assieme all’editore catanese, che a Taormina stava realizzando l’albergo abusivo. Quando gli spiegai i motivi della telefonata, in modo garbato mi rispose: “A lei non rilascio interviste”. “Perché?”. “Perché il suo articolo ci ha causato un sacco di danni, lo sa quanti milioni di Euro ci stiamo rimettendo?”. “Mi dispiace, ma mi sono limitato a fare il mio lavoro”. “Lo so, e vedo che lo fa bene, ma mi consenta di dirle che a lei non rilascio dichiarazioni”. “Sto intervistando tutti, è giusto sentire anche lei”. “Lei è troppo di parte, so benissimo da quale parte sta, non mi faccia aggiungere altro. La pubblicazione dell’articolo nello stesso giorno in cui si è riunito il Cga non è casuale”. “No guardi, io non sto da nessuna parte, sennò non l’avrei neanche chiamata. Cerco solo di fare un’informazione obiettiva”. “Mi dispiace… Se vuole posso farla parlare con il mio socio, il dottor Mario Ciancio”. “Va bene”. “Lo chiamo, fisso un appuntamento e le telefono subito”.
Il dottor Mario Ciancio forse mi conosceva per avermi letto sui Siciliani o forse… ma sì… aveva letto Gli insabbiati… Ne era uscito a pezzi anche per il tentativo di gettare discredito su un “suo” cronista, Beppe Alfano, corrispondente da Barcellona Pozzo di Gotto. (Per Gli insabbiati, l’allora presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia, aveva fatto il mio nome per il premio “Mario Francese”: nel Consiglio dell’Ordine volarono le sedie, niente premio, ma questa è un’altra storia…).
Dopo cinque minuti ricevetti una telefonata. Non era il presidente dell’Unione albergatori siciliani, ma Mario Ciancio in persona. Dalle mie parti un giornalista che fa parte del sistema o che aspira a farne parte, una chiamata del genere cerca di giocarsela: quello ti fa capire diplomaticamente di lasciar perdere, e tu altrettanto diplomaticamente gli fai capire che un favore è un favore… Ma per uno che ha Giuseppe Fava come punto di riferimento è un’altra cosa. Per uno così, la telefonata dell’uomo più potente della Sicilia è una telefonata come tutte le altre.
Dalle mie parti, se hai queste strane idee per la testa, inevitabilmente ti metti “contro”. E se ti metti contro, può capitare che siano loro, i potenti, a cercarti. Ti-vuoi-sistemare-alla-Rai? Quante volte ho sentito questa frase? Ma se il potere non riesce a inglobarti, ci vogliono maniere più energiche per farti tornare alla ragione. Pensavo a questo, mentre parlavo con Mario Ciancio.
“Allora, le dicevo… A Taormina c’è un cretino che sta costruendo un albergo… Hanno fermato i lavori, molti padri di famiglia sono in mezzo alla strada”.
“Mi dispiace … mi creda. Però dottor Ciancio, poco fa il suo socio mi ha detto che sto facendo questa inchiesta perché sarei di parte. Lei pensa la stessa cosa?”.
“Assolutamente no. Il mio amico ogni tanto si fa prendere dalla foga”.
Non amava apparire, ma era il re
Mario Ciancio si dimostrava una persona affabile e simpatica, diplomatica. Non amava apparire, ma era il vero re di Catania. Tutti dovevano prostrarsi ai suoi piedi per farsi pubblicare una merda di comunicato stampa. Ma in questo caso era lui a cercare me. Evidentemente era in piena emergenza. E per cosa? Non me lo disse apertamente, ma non era difficile intuirlo. Una cosa però fu chiara. Attraverso una frase o una parola, Mario Ciancio voleva capire le mie intenzioni.
“Dottor Ciancio, posso avere il piacere di venirla ad intervistare?”. Da questa frase Mario Ciancio comprese che non mi sarei piegato. E comprese soprattutto che stavo diventando pericoloso. Perché è chiaro… Se un potente si scomoda per chiamare un illustre sconosciuto, se non ottiene quello che si è prefissato, si organizza e si attrezza adeguatamente.
Quell’albergo era niente rispetto agli affari che l’editore aveva in mente, a Taormina come altrove. E quando fai affari non devi avere ostacoli, non puoi permetterti casini. Mario Ciancio capì, e in modo imperturbabile ne prese atto. Ma-certo-Mi-faccia-vedere-l’agenda-La-richiamo-subito. Ovviamente non richiamò.
Ma il bello doveva ancora venire. Scrissi la seconda puntata che si rivelò più dirompente della prima, perché – attraverso le testimonianze e le carte – avevo acquisito i nomi dei politici locali, regionali e nazionali che avevano coperto lo scandalo.
A Palermo cominciarono le indecisioni e le marce indietro. Mi fecero portare i documenti, andremo-avanti. Prima pensarono di farmi scrivere il pezzo con un collega di Palermo, poi di farmelo scrivere con una firma nazionale. Poi… Poi niente. Sulla vicenda calò il silenzio. Senza una spiegazione. Eppure qualcuno in redazione mi aveva avvisato: guarda che questo è uno pericoloso, io non ci avevo fatto caso, ero troppo ottimista per farci caso. Il pezzo rimase nel cassetto. E pare che la successiva telefonata non fosse arrivata dalla Sicilia, ma da Roma.
Qualche mese dopo il direttore della redazione palermitana, la persona che mi aveva fatto scrivere, che mi aveva dato una fiducia incondizionata, venne trasferito. Avvicendamento redazionale, si disse.
Da quel momento il silenzio non calò solo su quell’inchiesta. ma anche su di me, non in modo chiaro e diretto, ma in modo ineffabile e felpato. Garbatamente mi spiegarono che non mi sarei occupato di certi argomenti. Tu-sei-adatto-per-la-cultura. Per la cultura, certo… Da ogni parte della Sicilia mi chiamavano per denunciare uno scandalo, ma dovevo inventare una scusa per non andare. Ormai mi occupavo di cultura, quindi…
Poi Report di Milena Gabanelli si occupò del Caso Catania e tutta l’Italia conobbe la storia dell’imputazione per concorso esterno in associazione mafiosa di Mario Ciancio, del monopolio dell’informazione, delle pagine siciliane di Repubblica che non dovevano essere lette a Catania, la storia di certi intrallazzi.
Dopo quell’inchiesta la società civile catanese fu presa da un sussulto di indignazione, raccolse migliaia di firme e le spedì al direttore e all’editore di Repubblica: quello che state facendo non è affatto democratico, vogliamo l’inserto siciliano anche nella nostra città.
E arriva la “firma” da Roma…
A quel punto, per evitare lo sputtanamento completo, il giornale non potè tirarsi indietro. E allora arrivò la “svolta epocale”. Adesso i catanesi, come i siracusani e i ragusani, furono finalmente contenti di poter leggere dei fogli alternativi alla stampa catanese che parlassero delle vicende siciliane. Dopo tanti anni di attese frustrate, finalmente l’inserto siciliano di Repubblica usciva anche dalle mie parti.
E finalmente anch’io coronavo il mio sogno. A dirigere la redazione di Palermo arrivò “la firma” da Roma: Sebastiano Messina. Credevo che quella presenza fosse legata al rilancio dell’inserto. Andai a trovarlo. Fu gentilissimo. Sì-certo-Scrivi-pure-Inviami-le-proposte. Cominciai con gli scandali del Teatro Bellini di Catania e con la cementificazione della montagna di Letojanni, proprio sotto Taormina.
Ora, io non so cosa potrebbe essere successe davvero dietro le quinte di quel giornale, anzi, non so se successe veramente qualcosa. So solo che a poco a poco le cose cambiarono. E so pure che – dopo un periodo di articoli di “cultura” – ero stato rimesso in gioco con le inchieste. In pratica con il cavallo di Troia stavo entrando in un territorio off limits. E allora immagino le discussioni, ma non ho le prove, quindi posso solo immaginare.
Comunque… A poco a poco Catania diventò un puntino quasi invisibile sulla carta geografica delle pagine di Repubblica, qualche articolo di cronaca ogni morte di papa, ma scritto rigorosamente da altri. Io adesso venivo mandato ai convegni di neurochirurgia o alle gare fra muratori per chi costruiva la fioriera più bella.
Quando qualcuno scriveva del potere catanese, la sintonia fra il giornale e la società civile si interrompeva. E così arrivavano lettere di protesta di catanesi indignati. “Repubblica è democratica a Roma, ma è di destra a Catania”. E giù a spiegare che in questo processo di nemesi la presenza di Mario Ciancio non era casuale.
In compenso uscivano pagine e pagine sul mare invaso dalle meduse, sull’intonaco caduto dalla facciata, sul tombino scoppiato. Ovviamente a Palermo. La “svolta epocale” era questa.
Al nuovo direttore di Palermo inviai una lettera accorata dove spiegai quello che sicuramente sapeva: il giornale ha i suoi progetti e non li discuto, volete mettere Palermo al centro di tutto, che sia, ma occupiamoci anche delle altre parti dell’isola, facciamo delle belle inchieste, raccontiamo delle belle storie, parliamo di certi personaggi; queste pagine hanno una potenzialità straordinaria. Silenzio.
“Volete questa inchiesta?”. Silenzio
Ogni giorno inviavo proposte su qualsiasi cosa. A Paternò la Patrona sta sfilando fra due ali di immondizia arrivate fino al primo piano. Silenzio. Posso fare un’inchiesta sugli Ato? E sullo scandalo dei termovalorizzatori? Silenzio. Posso fare un servizio sul Caso Catania? Silenzio. Hanno ammazzato un giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, si sospetta che sia stata la mafia. Silenzio. Ho uno scoop sulla morte di Mauro Rostagno. Silenzio. Su quest’ultima cosa scrissi addirittura al direttore a Roma. Egregio direttore, ho scritto un libro sull’argomento e ho fonti in tutta Italia, ho uno scoop sulla morte di Mauro Rostagno, mi fa sapere per favore?
Silenzio. Due giorni dopo sulla prima pagina di Repubblica uscì un’inchiesta sul caso Rostagno. Firmato: il vice direttore da Roma. Solita minestra riscaldata, il segnale definitivo che non ero gradito.
A questo punto voglio sapere cosa succede. Mi attacco al telefono. Pronto, Palermo, la segreteria di redazione? Potete riferire al capo che vorrei incontrarlo? Certamente! Un mese di silenzio. Trenta giorni dopo: parlo con la segreteria di redazione? Vi avevo detto che volevo parlare col direttore.
Il-direttore-si-è-preso-l’appunto-Ha-detto-che-ti-avrebbe-richiamato-Non-lo-ha-fatto?-Glielo-diremo-. Ditegli che è importante. Silenzio.
E’-stato-lui-ad-andar-via-Non-lo-abbiamo-mica-cacciato-noi-Ma-no-che-non-è-una-cosa-personale-Magari-il-direttore-è-stato-sovraccarico-di-impegni-e-non-avrà-avuto-il-tempo-di-leggere-le-proposte-Figurarsi-a-Roma-O-magari-quelle-mail-non-le-ha-mai-ricevute…
Sì certo… e poi della mia richiesta di un incontro si sarà dimenticato, ma sicuramente era sua intenzione chiamarmi, quell’appunto sarà volato dalla scrivania ed è andata così. Sì, è andata certamente così…
Intanto le meduse (palermitane) infestavano il mare (palermitano), i muri (palermitani) delle scuole (palermitane) continuavano a scrostarsi e i tombini (palermitani) scoppiavano dopo altri temporali (palermitani), e intanto catanesi si avvicendavano, non io, ma quelli – rigorosamente – del gruppo Ciancio, ed io pensavo… Oooh-che-piacere-sei-Luciano-Mirone?-Lei-è-di-parte-Un-sovversivo-Attento-che-è-uno-pericoloso-Sì-certo-Consulto-l’agenda-e-la-richiamo-Subito.
Luciano… Che dire…sono con te. Continua la battaglia dalle pagine dei Siciliani
… immune da tentazioni e offerte di prebende, so che è difficile…io le battaglie per la mia Taormina le ho fatte e continuo a farle… e oggi posso dire che me le hanno fatte pagare “care”… ma continuo pur sapendo che poco ascolto trovo nei miei concittadini…al momento… un caro Saluto Luciano.
Sono queste ‘fatalità’, come la grandile, le colate laviche, le trombe d’aria. Bisogna pensare ai ‘motorini’ che ti suonano (affinchè tu ti ferma, e li fai pa ssare), al ‘diritto’ di andare al bar, durante l’orario di lavoro, al diritto delle donne con il passeggino e dei disabili di trovare i marciapiedi percorribili, di non fare file interminabili, ::::: Con vere e proprie campagne promozionali. Tempo, pazienza e tenacia
Caro Luciano, la tua esperienza a “la Repubblica” una lezione ed un esempio per tutti i Siciliani onesti che non si rassegnano e che si battono ogni giorno con la schiena dritta. Grazie. Sono con te.
Grandioso articolo Luciano!
Insegno Storia delle dottrine politiche a Scienze politiche di Catania, spesso con gli studenti ho bisogno di dare senso concreto e fattuale a termini come libertà di pensiero, partecipazione alla dinamica democratica, relazione tra potere economico e potere politico. I classici, da Bento Spinoza a Bertrand Russel mi hanno spesso salvato, ma ora non potrò fare a meno di partecipare agli studenti un esempio così vicino nel tempo e nello spazio della dialettica tra potere e libertà intellettuale.
Grazie!
un’articolo e un impegno da Premio Pulitzer…non smettere mai di crederci, sei un’ottimo giornalista ..Tu combatti ciò che asseriva Pulitzer ” un’informazione criminale genera una società criminale”
bravo, solo questo
Complimenti! Bellissimo l’articolo.
Continua così….
Non sappiamo se questo soggetto sia colpevole. Ma se lo è, che sia condannato a durissima pena. Se forse ha commesso tante malefatte, allora dov’era la magistratura etnea prima, come pure gli inquirenti, catanesi? Però tale individuo col suo giornale è stato sempre prodigo di articoli proni alla gerarchia! Forse che questa è stata sempre silente, e quindi compiacente col Tizio, anch’egli dai poteri forti?
Complimenti, ma dov’è la novità?