sabato, Novembre 23, 2024
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Il metano, la mafia e la mafia dell’“antimafia”

In Sicilia quando gira­no soldi – controllo del territorio, pizzo, appalti – di solito in qualche modo c’è Cosa nostra. La mafia ha cambiato pelle tantissi­me volte, ma i “piccio­li” non li ha abbando­nati mai. E’ irre­sistibile, l’odore dei soldi, per Cosa No­stra 

Un fiume di denaro con tanti affluenti e una sorgente sola: l’impero della fa­miglia Cavallotti è così. Milioni che i sei fratelli di Belmonte Mezzagno hanno messo in­sieme anno dopo anno con va­rie imprese in vari rami: ponti, strade, acquedotti e palazzi. E per finire il me­tano, un affare che nella Sicilia fine anni ‘80 sarebbe di­ventato a nove zeri. 

Ma andiamo con ordine. La Comest, l’azienda più grande del gruppo è quella che si occupa di metanizzazione. L’intui­zione geniale che ha consentito a questa azienda di far fortuna è l’utilizzo della “fi­nanza di progetto”, il project financing: tecniche di finanziamento a lungo termine in cui il ristoro del finanziamento stesso è garantito dai flussi di cassa previsti dalla attività di gestione dell’opera prevista. In sostanza, i Cavallotti costruivano mate­rialmente gli impianti a metano per i vari comuni siciliani utilizzando capitali priva­ti derivati da prestiti bancari.

In cambio ottenevano dalla pubblica amministrazione la distribuzione del gas, la gestione e la manutenzione trentennale degli impianti, il tutto ovviamente sotto procedure di evidenza pubblica.

Un bell’affare che a detta stessa di Sal­vatore Cavallotti consentiva al gruppo di fatturare circa venti miliardi di lire.

“Ma ci possono essere – chiederà qual­cuno – infiltrazioni mafiose in un’opera­zione così?”. 

I soldi della metanizzazione 

Beh, se in Sicilia muovi miliardi e sei di Belmonte Mezzagno, il feudo di Benedet­to Spera, fedelissimo di Bernardo Proven­zano, qualcosa non torna. In effetti la ma­fia in questa storia c’è, eccome, ma non nei termini che voi immaginereste.

Come per la stragrande maggioranza delle aziende siciliane dell’epoca il pizzo era un obbligo e i Cavallotti non si sot­trassero a questa pratica. Nessuno li giu­stifica per averlo pagato, ma sarebbe op­portuno contestualizzare il periodo e capi­re che se non davi una percentuale dei proventi economici di qualsiasi attività al capo mandamento in cambio della così detta “protezione”, attentati e atti intimi­datori di ogni genere avrebbero fatto parte della tua quotidianità. Il gruppo Cavallotti pagò il pizzo? Per le autorità giu­diziarie si tratterà d’altro.

Dalla comunità europea arrivò in Sicilia una valanga di soldi, destinati pro­prio alla metanizzazione, un affare clamo­roso sul quale cosa nostra non rimase a guardare, estromettendo proprio la fami­glia Cavallotti da questo fiume di da­naro.

Nel 1998 tre dei fratelli Cavallotti furo­no arrestati e incarcerati. Saranno in se­guito assolti con sentenza definitiva dall’accusa di concorso esterno in asso­ciazione mafiosa con la formula “perché il fatto non sussiste” solo nel 2010 dopo un lunghissimo iter processuale.

I pizzini di Provenzano 

Recentemente, durante un’audizione della commissione nazionale antimafia, riguardo all’assoluzione dei fratelli Caval­lotti, il dott. De Lucia ha dichiarato te­stualmente che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta (in un dato modo – ndr). Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”.

Il processo, che invece ha visto l’asso­luzione dei Cavallotti per questioni di na­tura sostanziale, nasce da alcuni pizzini inviati da Provenzano al confidente Ilardo e da diverse dichiarazioni di numerosi collabo­ratori di giustizia che se interpreta­te in maniera coerente, come per altro è stato fatto in altri processi, dimostrerebbe­ro come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate il­lecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni ’80 e ’90 sarebbero state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneg­giamenti. 

La “messa a posto” 

L’allora ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, Angelo Siino, ha indicato i Cavallotti non come degli uomini d’onore e neppure come dei soggetti vicini alla mafia ma, come imprenditori oggetto di “messa a posto” che nel gergo mafioso si­gnifica il pagamento del pizzo e non rac­comandazione, che costituirebbe quindi il fondamento per il reato di turbativa d’asta.

La circostanza che Provenzano facesse riferimento nei pizzini, alla “messa a po­sto” si può stabilire anche dall’importo in­dicato nei bigliettini, che è più basso ri­spetto a quello per il quale i lavori furono aggiudicati. Nello specifico si tratta dei lavori per i comuni di Agira e Centuripe.

Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministra­zione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. “patto di legalità” siglato dall’allora Prefetto Profili, alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonché nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. 

Venduto e smembrato 

Fin qui una storia in cui la mafia e la sua infiltrazione nella poli­tica hanno so­praffatto e distrutto in parte un impero economico. Ciò che è rimasto del gruppo Cavallotti è stato devastato, venduto e smembrato dagli amministratori giudizia­ri: comportamento avallato dal tribu­nale delle misure di prevenzione di Paler­mo.

Nel 1999 la prima sezione per le misure di Prevenzione del tribunale di Palermo dispone il sequestro preventivo dell’intero patrimonio della famiglia di Belmonte Mezzagno, viene nominato così un ammi­nistratore giudiziario e cominciano i nuo­vi guai.

In gergo legale l’onere della pro­va vie­ne così invertito, spetta cioè a Cavallotti di­mostrare la provenienza lecita dei beni oggetto di sequestro in un procedi­mento giuridico che è parallelo a quello penale ordinario e che segue regole tutte sue.

L’amministratore nominato dal tribuna­le di Palermo per il gruppo Cavalloti è Andrea Modica de Mohac che stando al quinto comma dell’articolo 35 del Codice delle leggi antimafia e delle misure di pre­venzione avrebbe dovuto ”rivestire la qualifica di pubblico ufficiale” e avrebbe dovuto “adempiere con diligenza ai com­piti del proprio ufficio”. Egli avrebbe avuto il compito di “provvedere alla cu­stodia, alla conservazione e all’ammini­strazione dei beni sequestrati nel corso dell’intero procedimento, anche al fine di incremen­tare, se possibile, la redditività dei beni medesimi.” 

Per il suo patrimonio personale 

Nulla di tutto questo è avvenuto. In un recente servizio della trasmissio­ne di Italia Uno “Le Iene”, realizzato an­che con la collaborazione di Telejato, sono state messe in evidenza l’incapacità di questo amministratore di gestire questo gruppo e la malafede con la quale avrebbe condotto tutta una serie di operazioni fi­nanziarie, allo scopo di arricchire il suo patrimonio personale attraverso quello delle aziende che gestiva, con la tolleranza del tribunale di Palermo. Se ne parla in un altro dei capitoli dell’inchiesta di Telejato La Mafia dell’”Antimafia”2.

Il lavoro dell’amministratore 

Ma qual è lavoro di un amministratore giu­diziario? E’ importantissima, nella fase del seque­stro preventivo, la necessità di mantenere i livelli di efficienza e nel caso delle aziende dei profitti e dei livelli occu­pazionali. Ciò proprio per la natura tem­poranea del sequestro: sia che si vada a confisca definitiva (dimostrata quindi la colpevolezza dei soggetti oggetto di misu­ra di prevenzione), sia che si vada alla re­stituzione del bene al legittimo proprieta­rio, le sue condizioni devono rimanere inalte­rate, poiché sono soldi e beni o del legitti­mo proprietario o della collettività.

Il percorso penale ordinario dei Caval­lotti si è conclso nel 2010 con la sentenza d’assoluzione di cui si faceva menzione prima, tuttavia poiché il giudizio penale ordinario per il nostro ordinamento è cosa assestante rispetto al processo legato all’applicazione delle misure di preven­zione le aziene ad oggi sono ancora sotto sequestro. I presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione sono gli stessi che nel giudizio penale sono stati poi ri­baltati come elementi di persecuzione, in­somma siamo davanti ad una difforme in­terpretazione dei pizzini che hanno dato il via a questa brutta vicenda.

Le sentenze pas­sate in giudi­cato posso­no venire ignorate? In questo caso lo sono state per consen­tire le operazioni finanzia­rie di Modica che con aziende a lui ricon­ducibili avreb­be percepito indebitamente cifre conside­revoli per aver rilevato debiti già prescritti dalla Comest.

Il dottor Vincenzo Paturzo, curatore fal­limentare presso il tribunale di Milano, analizzando dodici anni di bilanci azien­dali ha riscontrato una situazione davvero singolare.

Al contrario di quanto sostenuto da Mo­dica, la Comest aveva tutte le risorse eco­nomiche necessarie per affrontare il lavo­ro d’impresa e non era come affermato, in uno stato di “insolvenza tecnica”. Certo, si parla di un’azienda sconvolta da una vi­cenda giudiziaria importante ma non così malata; tuttavia al fine di risanare le sorti finanziarie Modica ha ceduto dei rami d’azienda del gruppo e li ha fatti rilevare da una società in amministrazione giudi­ziaria, la Tosa, confiscata in via definitiva e amministrata dal fratello Giuseppe Mo­dica con l’avallo del tribunale.

Un’opera­zione che nei bilanci non darà alcun bene­ficio. Beneficio che invece trar­ranno le società che venderanno i rami d’azienda in questione realizzando un profitto di un milione di euro.

I debiti prescritti 

Quanto ai debiti prescritti (quindi non più dovuti né esigibili) nel 2009 questi sono stati ceduti tramite scrittura privata da Comest e Icotel (società del gruppo Cavallotti) alla Advisor and services for Business di cui diventerà amministratore unico proprio Modica de Moach pochi mesi dopo la firma di questa scrittura pri­vata, facendogli così acquisire indebita­mente un milione di euro.

Il mutismo delle istituzioni, del tribuna­le e di Modica, incalzato dalle do­mane del collega Andrea Viviani, è elo­quente se si considera che basta un so­spetto di inco­gruenza patrimoniale per far partire un se­questro preventivo come quello che ha coinvolto la famiglia Caval­loti.

La mafia dell’”antimafia” insommac’è, e que­sto dei fratelli Cavallotti ne è un esem­pio. E restano ancora da esaminare le sorti delle aziende dei figli dei Cavallotti e degli in­trecci con Italgas.

Telejato, che ha seguito dall’inizio tutta questa vicenda, chiede di essere audita in Com­missione nazionale antimafia per rac­contare questa e altre vicende che sono sotto gli occhi di tutti e che come al solito nes­suno vuole guardare da vicino.

1 “Finanza di progetto – Wikipedia” : http://it.wikipedia.org/wiki/Finanza_di_progetto

2 “La Mafia dell’”Antimafia”: l’inchiesta di Telejato, audita il.9 febbraio 2015: www.telejato.it/home/mafia-2/la-mafia-dellantimafia-linchiesta-di-telejato-audita-in-parlamen­to

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