Il metano, la mafia e la mafia dell’“antimafia”
In Sicilia quando girano soldi – controllo del territorio, pizzo, appalti – di solito in qualche modo c’è Cosa nostra. La mafia ha cambiato pelle tantissime volte, ma i “piccioli” non li ha abbandonati mai. E’ irresistibile, l’odore dei soldi, per Cosa Nostra
Un fiume di denaro con tanti affluenti e una sorgente sola: l’impero della famiglia Cavallotti è così. Milioni che i sei fratelli di Belmonte Mezzagno hanno messo insieme anno dopo anno con varie imprese in vari rami: ponti, strade, acquedotti e palazzi. E per finire il metano, un affare che nella Sicilia fine anni ‘80 sarebbe diventato a nove zeri.
Ma andiamo con ordine. La Comest, l’azienda più grande del gruppo è quella che si occupa di metanizzazione. L’intuizione geniale che ha consentito a questa azienda di far fortuna è l’utilizzo della “finanza di progetto”, il project financing: tecniche di finanziamento a lungo termine in cui il ristoro del finanziamento stesso è garantito dai flussi di cassa previsti dalla attività di gestione dell’opera prevista. In sostanza, i Cavallotti costruivano materialmente gli impianti a metano per i vari comuni siciliani utilizzando capitali privati derivati da prestiti bancari.
In cambio ottenevano dalla pubblica amministrazione la distribuzione del gas, la gestione e la manutenzione trentennale degli impianti, il tutto ovviamente sotto procedure di evidenza pubblica.
Un bell’affare che a detta stessa di Salvatore Cavallotti consentiva al gruppo di fatturare circa venti miliardi di lire.
“Ma ci possono essere – chiederà qualcuno – infiltrazioni mafiose in un’operazione così?”.
I soldi della metanizzazione
Beh, se in Sicilia muovi miliardi e sei di Belmonte Mezzagno, il feudo di Benedetto Spera, fedelissimo di Bernardo Provenzano, qualcosa non torna. In effetti la mafia in questa storia c’è, eccome, ma non nei termini che voi immaginereste.
Come per la stragrande maggioranza delle aziende siciliane dell’epoca il pizzo era un obbligo e i Cavallotti non si sottrassero a questa pratica. Nessuno li giustifica per averlo pagato, ma sarebbe opportuno contestualizzare il periodo e capire che se non davi una percentuale dei proventi economici di qualsiasi attività al capo mandamento in cambio della così detta “protezione”, attentati e atti intimidatori di ogni genere avrebbero fatto parte della tua quotidianità. Il gruppo Cavallotti pagò il pizzo? Per le autorità giudiziarie si tratterà d’altro.
Dalla comunità europea arrivò in Sicilia una valanga di soldi, destinati proprio alla metanizzazione, un affare clamoroso sul quale cosa nostra non rimase a guardare, estromettendo proprio la famiglia Cavallotti da questo fiume di danaro.
Nel 1998 tre dei fratelli Cavallotti furono arrestati e incarcerati. Saranno in seguito assolti con sentenza definitiva dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula “perché il fatto non sussiste” solo nel 2010 dopo un lunghissimo iter processuale.
I pizzini di Provenzano
Recentemente, durante un’audizione della commissione nazionale antimafia, riguardo all’assoluzione dei fratelli Cavallotti, il dott. De Lucia ha dichiarato testualmente che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta (in un dato modo – ndr). Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”.
Il processo, che invece ha visto l’assoluzione dei Cavallotti per questioni di natura sostanziale, nasce da alcuni pizzini inviati da Provenzano al confidente Ilardo e da diverse dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia che se interpretate in maniera coerente, come per altro è stato fatto in altri processi, dimostrerebbero come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni ’80 e ’90 sarebbero state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti.
La “messa a posto”
L’allora ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra, Angelo Siino, ha indicato i Cavallotti non come degli uomini d’onore e neppure come dei soggetti vicini alla mafia ma, come imprenditori oggetto di “messa a posto” che nel gergo mafioso significa il pagamento del pizzo e non raccomandazione, che costituirebbe quindi il fondamento per il reato di turbativa d’asta.
La circostanza che Provenzano facesse riferimento nei pizzini, alla “messa a posto” si può stabilire anche dall’importo indicato nei bigliettini, che è più basso rispetto a quello per il quale i lavori furono aggiudicati. Nello specifico si tratta dei lavori per i comuni di Agira e Centuripe.
Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. “patto di legalità” siglato dall’allora Prefetto Profili, alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonché nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”.
Venduto e smembrato
Fin qui una storia in cui la mafia e la sua infiltrazione nella politica hanno sopraffatto e distrutto in parte un impero economico. Ciò che è rimasto del gruppo Cavallotti è stato devastato, venduto e smembrato dagli amministratori giudiziari: comportamento avallato dal tribunale delle misure di prevenzione di Palermo.
Nel 1999 la prima sezione per le misure di Prevenzione del tribunale di Palermo dispone il sequestro preventivo dell’intero patrimonio della famiglia di Belmonte Mezzagno, viene nominato così un amministratore giudiziario e cominciano i nuovi guai.
In gergo legale l’onere della prova viene così invertito, spetta cioè a Cavallotti dimostrare la provenienza lecita dei beni oggetto di sequestro in un procedimento giuridico che è parallelo a quello penale ordinario e che segue regole tutte sue.
L’amministratore nominato dal tribunale di Palermo per il gruppo Cavalloti è Andrea Modica de Mohac che stando al quinto comma dell’articolo 35 del Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione avrebbe dovuto ”rivestire la qualifica di pubblico ufficiale” e avrebbe dovuto “adempiere con diligenza ai compiti del proprio ufficio”. Egli avrebbe avuto il compito di “provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati nel corso dell’intero procedimento, anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi.”
Per il suo patrimonio personale
Nulla di tutto questo è avvenuto. In un recente servizio della trasmissione di Italia Uno “Le Iene”, realizzato anche con la collaborazione di Telejato, sono state messe in evidenza l’incapacità di questo amministratore di gestire questo gruppo e la malafede con la quale avrebbe condotto tutta una serie di operazioni finanziarie, allo scopo di arricchire il suo patrimonio personale attraverso quello delle aziende che gestiva, con la tolleranza del tribunale di Palermo. Se ne parla in un altro dei capitoli dell’inchiesta di Telejato La Mafia dell’”Antimafia”2.
Il lavoro dell’amministratore
Ma qual è lavoro di un amministratore giudiziario? E’ importantissima, nella fase del sequestro preventivo, la necessità di mantenere i livelli di efficienza e nel caso delle aziende dei profitti e dei livelli occupazionali. Ciò proprio per la natura temporanea del sequestro: sia che si vada a confisca definitiva (dimostrata quindi la colpevolezza dei soggetti oggetto di misura di prevenzione), sia che si vada alla restituzione del bene al legittimo proprietario, le sue condizioni devono rimanere inalterate, poiché sono soldi e beni o del legittimo proprietario o della collettività.
Il percorso penale ordinario dei Cavallotti si è conclso nel 2010 con la sentenza d’assoluzione di cui si faceva menzione prima, tuttavia poiché il giudizio penale ordinario per il nostro ordinamento è cosa assestante rispetto al processo legato all’applicazione delle misure di prevenzione le aziene ad oggi sono ancora sotto sequestro. I presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione sono gli stessi che nel giudizio penale sono stati poi ribaltati come elementi di persecuzione, insomma siamo davanti ad una difforme interpretazione dei pizzini che hanno dato il via a questa brutta vicenda.
Le sentenze passate in giudicato possono venire ignorate? In questo caso lo sono state per consentire le operazioni finanziarie di Modica che con aziende a lui riconducibili avrebbe percepito indebitamente cifre considerevoli per aver rilevato debiti già prescritti dalla Comest.
Il dottor Vincenzo Paturzo, curatore fallimentare presso il tribunale di Milano, analizzando dodici anni di bilanci aziendali ha riscontrato una situazione davvero singolare.
Al contrario di quanto sostenuto da Modica, la Comest aveva tutte le risorse economiche necessarie per affrontare il lavoro d’impresa e non era come affermato, in uno stato di “insolvenza tecnica”. Certo, si parla di un’azienda sconvolta da una vicenda giudiziaria importante ma non così malata; tuttavia al fine di risanare le sorti finanziarie Modica ha ceduto dei rami d’azienda del gruppo e li ha fatti rilevare da una società in amministrazione giudiziaria, la Tosa, confiscata in via definitiva e amministrata dal fratello Giuseppe Modica con l’avallo del tribunale.
Un’operazione che nei bilanci non darà alcun beneficio. Beneficio che invece trarranno le società che venderanno i rami d’azienda in questione realizzando un profitto di un milione di euro.
I debiti prescritti
Quanto ai debiti prescritti (quindi non più dovuti né esigibili) nel 2009 questi sono stati ceduti tramite scrittura privata da Comest e Icotel (società del gruppo Cavallotti) alla Advisor and services for Business di cui diventerà amministratore unico proprio Modica de Moach pochi mesi dopo la firma di questa scrittura privata, facendogli così acquisire indebitamente un milione di euro.
Il mutismo delle istituzioni, del tribunale e di Modica, incalzato dalle domane del collega Andrea Viviani, è eloquente se si considera che basta un sospetto di incogruenza patrimoniale per far partire un sequestro preventivo come quello che ha coinvolto la famiglia Cavalloti.
La mafia dell’”antimafia” insommac’è, e questo dei fratelli Cavallotti ne è un esempio. E restano ancora da esaminare le sorti delle aziende dei figli dei Cavallotti e degli intrecci con Italgas.
Telejato, che ha seguito dall’inizio tutta questa vicenda, chiede di essere audita in Commissione nazionale antimafia per raccontare questa e altre vicende che sono sotto gli occhi di tutti e che come al solito nessuno vuole guardare da vicino.
1 “Finanza di progetto – Wikipedia” : http://it.wikipedia.org/wiki/Finanza_di_progetto
2 “La Mafia dell’”Antimafia”: l’inchiesta di Telejato, audita il.9 febbraio 2015: www.telejato.it/home/mafia-2/la-mafia-dellantimafia-linchiesta-di-telejato-audita-in-parlamento