venerdì, Novembre 22, 2024
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L’immagine del movimento

A guardarlo potrebbe sembrare un calzolaio, oppure un filosofo gre­co. Il mestiere e il pen­siero. E infatti, è un fo­tografo

Tano D’Amico è un signore magro dai cappelli bianchi lunghi, occhialoni tondi portati bassi sul naso, e un sorriso allegro e sag­gio. Potrebbe essere un calzolaio così come uno studioso della scuola di Atene, e probabilmente è vicino ad en­trambe queste figure: fa il fotografo.

E’ stato il relatore di un seminario di fo­tografia sociale organizzato dai Siciliani giovani. Per un giorno ci ha rapiti coi suoi rac­conti e le sue foto, dai movimenti degli anni ‘70 fino ad arrivare alla Genova del G8, ha vissuto e documentato una parte importante della nostra storia, ha raccon­tato le vite delle persone comuni, dei de­boli cui dar voce, con un’attenzione spe­ciale alle donne.

Soprattutto Tano è un poeta, che scrive in maniera semplice, ma chiara e forte, il suo essere partecipe alle emozioni che os­serva, e lo fa usando una macchina foto­grafica.

Prima di lasciarci, aspettando il treno per Roma, abbiamo parlato ancora, da­vanti una granita al limone, che a lui piace tanto, e trova solo in Sicilia, la sua terra di nascita.

Non lasciare indifferente nessuno

Parliamo della fotografia sociale e di militanza.

Le definizioni non interessano. Le im­magini si dividono in due, le belle imma­gini e le brutte immagini, perché indiffe­rentemente dal senso letterale, un’imma­gine si può fare amare e ricordare, oppure può essere completamente superflua.

Una buona immagine non deve lasciare indifferente nessuno, e non lascia indiffe­rente nessuno.

Si possono anche odiare, dicendo però che sono delle belle immagini.

Chi non è capace di indignarsi, chi si conforma alle consuetudini, è cieco nei confronti del mondo?

Questo è un periodo in cui si vedono delle brutte immagini, immagini acritiche, gran parte della bellezza nelle immagini secondo me, sta nella critica.

Un’immagine che si accontenta del mondo com’è, è superflua, è inutile.

Se uno ha un’idea diversa del mondo, ha delle istanze diverse da quelle che sono vincenti nel mondo, nell’immagine si deve vedere, e si vede.

 Si racconta come la lotta per la casa ha significato l’inizio della tua carriera foto­grafica, e oggi sei tornato a fotogra­farla.

Io mi interesso a delle storie che mi coinvolgano.

La lotta per la casa è coinvolgente per­ché di fatto chi lotta per la casa vuole un mondo diverso, almeno una città diversa, non si accontenta delle strutture gerarchi­che che esistono, perché tocca con la sua vita, con la salute dei propri figli, che sono ingiuste, che sono fatte per macinare gli uomini, molto più che per farli vivere.

Quindi la lotta per la casa è avvincente perché oggi è il primo gradino di una ri­volta contro lo stato di cose esistente.

E anche ieri, ieri nel senso di quarantacinque anni fa, lo era ed ha vinto.

Ha vinto nei cuori delle persone, ha spostato una specie di centro di gravità nella coscienza di un popolo.

Se la lotta non riesce a spostare quel centro di gravità culturale, è superflua, perché, anche se per caso vincesse, lasce­rebbe esattamente tutto com’è.

Se, al contrario, riesce a spostarlo, per primo nelle coscienze delle persone che la conducono, quella lotta allora vincerà, perché anche se sarà sconfitta, le persone saranno cambiate, le persone saranno più coscienti.

Io penso di aver avuto una vita fortuna­ta, che mi ha fatto toccare con mano che persone, ambienti, e situazioni possono cambiare e non dipende dalla forza fisica, né dalla potenza del denaro, ma dipende dalla coscienza.

Non è vero che vince sempre il più forte

Se non hai quel tipo di coscienza non puoi raccontare quelle storie, perché non le vivi sulla tua pelle, quindi non sei capa­ce di riconoscerle.

Io ho avuto una fortuna più grande, nel senso che le persone con cui sono venuto in contatto in quella lotta, volevano delle immagini diverse.

Allora questo incontro ha fatto in modo che la lotta per la casa fosse raccontata in un modo che dura tuttora.

Questa cosa qui mi piace molto, che non è vero che nell’immagine, quindi nel­la memoria, vinca il più forte, non è vero che vince il più ricco.

Mi chiedo ogni tanto che fine hanno fat­to le immagini che ruggivano sul Corriere della Sera, su Epoca, sulle grandi riviste e sui grandi giornali… sono state completa­mente dimenticate, non c’è nessuno che le riproponga.

Perché? Perché ne hanno vergogna, per­ché sono immagini vergognose, in cui si vedono gli umili, gli ultimi, per usare que­ste categorie, rappresentati come brutti, sporchi e cattivi.

L’immagine cambiò, perché forse per la prima volta i movimenti cercarono e pro­dussero le loro immagini. Il rapporto tra movimenti e immagini è molto delicato, perché il movimento vive se ha le sue im­magini, muore se non le ha.

Le primavere arabe sono finite anche perché non avevano prodotto un modo di­verso di rappresentarsi e di rappresentare il mondo.

Il movimento per la pace da noi è morto perché non ha avuto delle immagini capa­ci di perpetuarlo.

Come il movimento di Genova, che si è impiccato con le sue stesse immagini, per­ché con un atto di barbarie, di brutalità, ha voluto dimenticare che l’immagine non è la rappresentazione passiva di quello che accade, e non è niente se non è capace di mostrare il contesto, le istante, le motiva­zioni di quelli che cercano quelle immagi­ni.

Se le immagini non contengono le moti­vazioni, si limitano a rappresentare la realtà, gli avvenimenti, così come accado­no, senza chiedersi nemmeno perché, sono delle immagini che non fanno altro che criminalizzare quelli che vogliono in­frangere le regole che vigono in quel pe­riodo, che vogliono infrangere uno stato di cose soffocante.

Criminalizzano chi vuole fare irrompere nelle vite e nelle storie di ognuno di noi degli ideali nuovi.

L’immagine che si chiede perché

Differentemente dagli anni 70, oggi i movimenti si auto rappresentano ma si rappresentano male. Perché farsi delle brutte foto?

Nelle aule di tribunale questo appare. I movimenti hanno perso la loro cultura.

I movimenti hanno prodotto [negli anni 70, ndr] dei grandi avvocati, che capivano i movimenti, che hanno fatto delle splen­dide difese, che andavano al di la del sin­golo episodio, che erano capaci di far comparire le motivazioni più ampie, il contesto più ampio.

L’immagine che racconta tutto

Così anche le immagini. Molte mie im­magini sono servite a difesa in tribunale proprio perché facevano balenare la quali­tà umana delle persone. Erano capaci di fare vedere che la si­gnora Camilla che si opponeva alla forza pubblica, che rigetta­va i candelotti che la forza pubblica getta­va su di lei e le sue amiche, aveva dormito per settimane con i suoi bambini in mac­china. Nell’immagine si vedeva, si vedeva dai volti delle persone, si vedeva dalle linee dei corpi, che la signora Camilla non era abituata a quel genere di lotta, eppure la affrontava per amore dei propri figli.

Bisogna dire che i movimenti di oggi sono incapaci di difendersi in tribunale, per esempio solo nella difesa in cassazio­ne dei movimenti di Genova, gli avvocati sono arrivati a concepire che i loro assisti­ti venivano condannati per brutte immagi­ni, molto più che per quello che potevano avere o non avere fatto.

Cito a braccio qualche brano dell’ultima arringa, del difensore, che aveva studiato, ma troppo tardi, e disse “voi condannate delle persone per delle immagini di cui voi scrivete la didascalia, voi condannate delle persone per singoli istanti legati as­sieme dalla vostra didascalia, dalle vostre parole”.

Ecco, si era reso conto troppo tardi, l’avvocato, che a lui mancavano delle im­magini capaci di avere la nostra didasca­lia, che non può essere scritta con le paro­le, ma si deve vedere nelle immagini.

I movimenti e gli avvocati non avevano studiato, non avevano studiato la storia, perché certe immagini, i vinti come noi, i miserabili come noi, se le sono sempre cercate, e se le sono sempre fatte.

I movimenti stanno morendo perché non hanno questa istanza culturale, una istanza di diversità, una istanza che non si accontenta della cultura che già esiste, che è di altri, ed è una legge della storia che un gruppo umano o si fa la propria cultu­ra, quindi le proprie immagini, o viene in­globato e calpestato da altri gruppi umani più provveduti.

Stare insieme senza gerarchie

Infatti Genova ha segnato l’inizio del­la fine dei movimenti.

Quello che è capitato a Genova è che le forze armate di un popolo si sono scaglia­te su quello stesso popolo, e per un giorno solo è capitato quello che fu nella Spagna di Franco, grazie al cielo per un giorno solo, due, tre… Perché si sono scagliati?

Guardiamo un po’ chi ha guadagnato e chi ha perso a Genova.

A Genova abbiamo perso noi, perché un movimento che si era sviluppato ed era cresciuto enormemente [da Seattle in poi, ndr] avrebbe potuto cancellare alcuni modi di organizzazione, avrebbe potuto cancellare partiti, sindacati, perché aveva­mo un modo di stare insieme che – come qualcuno ha scritto – dalle monache ai punkabbestia, faceva a meno di organiz­zazioni gerarchiche basate sull’obbedien­za.

Allora questo movimento enorme, se avesse preso piede, avrebbe davvero cam­biato il paese, oserei dire il mondo.

Allora è successo che questo popolo, con la violenza di qualche giorno, col san­gue, con la morte, è stato riportato nell’alveo. Chi ha guadagnato? I partiti e i sindaca­ti.

Se noi guardiamo alla storia dopo, ve­diamo delle ricompense, vediamo dei gua­dagni tangibili, presidenze delle camere.

E che senza Genova non ci sarebbero state.

E il dibattito su violenza e non violenza fu grottesco, come chiedere a una donna che ha ricevuto violenza e oltraggio, di dissociarsi dall’oltraggio.

I violentati a Genova siamo stati noi, e ci è stato chiesto di dissociarci, di con­dannare la violenza: grottesco.

Ma chi ce lo ha chiesto? Persone che hanno avuto delle ricompense tangibili.

A questo punto mi chiedo un fotogra­fo quanto deve capirne di politica, e quanto la fotografia può cambiare la politica.

Io penso che un fotografo debba cercare di capire, forse non capirà, ma nelle sue immagini già appariranno delle domande.

Sperando che chi guarderà quelle im­magini cercherà anche lui di capire, con la sua testa. E questo è importante per un fotografo e per chi guarda le immagini: il tentativo continuo di guardare con i propri occhi, pensare con la propria testa, e di sentire col proprio cuore.

L’uomo come dev’essere: simile a Dio

Prima gli operai erano rappresentati come brutti e cattivi, tu invece hai rappre­sentato la bellezza che c’è in tutta l’uma­nità.

 C’è una casa editrice del nostro Paese che in una pubblicazione, ha mostrato come al cambiare della storia cambiassero le immagini.

C’era il capitolo della prima guerra mondiale e gli uomini del periodo, per esempio gli operai, venivano visti come un’appendice dei cannoni, dei proiettili dei cannoni che costruivano.

E c’era poi un altro capitolo, come cam­biò l’immagine coi movimenti.

Allora sembra incredibile che noi non ci rendiamo nemmeno conto del ruolo che abbiamo avuto nella storia, che è stato an­che quello di far cambiare l’immagine dell’uomo, il modo di vedere la persona.

La persona con i movimenti ha acqui­stato valore al di la del suo ruolo, la per­sona è stata molto più importante del ruo­lo che era stata chiamata a coprire.

Per usare le parole delle antiche scrittu­re, finalmente proprio col nostro lavoro, sui giornali è apparsa una immagine dell’uomo così come deve essere, simile a Dio.

Eppure oggi c’è una spettacolarizzazio­ne del dolore. La fotografia si sta sba­gliando?

Nella storia esistono delle splendide im­magini di dolore, basta pensare alle pietà del rinascimento, del medioevo, quelle delle nostre chiese, dei nostri musei, come si fa a dire che spettacolarizzavano il do­lore?

Quelle immagini volevano vincere il dolore, volevano vincere la morte. Io sono per questo tipo di immagine.

L’amicizia con “I Siciliani”

Parlaci della tua amicizia con I Sici­liani.

I Siciliani sono anch’io, è una complici­tà di nascita.

La mia amicizia con I Siciliani credo durerà per sempre, perché siamo legati da un intreccio di vite.

Siamo uniti da episodi tragici, vissuti, abbiamo pianto insieme e abbiamo cerca­to anche di vivere insieme.

E abbiamo visto quanto sia difficile por­tare avanti la ricerca di indipendenza, di una cultura diversa, che potesse opporsi non solo alla mafia dei quartieri, ma so­prattutto alla mafia che nel nostro paese ha vinto, quella che non chiede più alle persone solo il proprio lavoro, ma chiede loro una adesione completa.

Qualcuno un po’ più anziano di noi ha portato avanti questo tentativo, e l’ha pa­gato molto molto caro. Siamo legati anche dall’affetto che tutti noi abbiamo portato a quel tipo di persona.

L’immagine forte delle donne

Spesso rappresenti le donne, e lo fai con un’immagine molto positiva, forte, padrone del loro destino e desiderose di cambiare il mondo.

Mi sono trovato una volta in un piccolo paese che aveva una sola bottega che ven­deva di tutto, dalle aspirine alle batterie, e la sera era l’unico ritrovo.

E anche io andai in questa piccolissima bottega.

Ricordo gli uomini, vennero a parlare con me che non ero del paese, furono gen­tili, e la prima domanda che mi fecero fu: ‘come sta il ginocchio di Gullit?’

Gullit era un giocatore di quegli anni.

Non mi chiesero del mio paese, della mia famiglia, nulla.

Le donne, invece, mi chiesero se qual­cuno quella sera in qualche altro paese mi stava aspettando, come stava la mia fami­glia, se avevo dei figli, se avevo una mo­glie.

Ecco, erano delle domande in cui si pa­ragonavano le vite, mentre in quelle degli uomini questo non c’era.

Se guardiamo alla storia delle immagi­ni, anche agli episodi difficili, brutti, della nostra storia, vediamo che gli uomini sono i primi a perdere la propria cultura, i primi a smarrirsi, e come invece le donne e i bambini si accorgono per primi che la cultura va mantenuta.

Noi uomini stiamo perdendo il contatto con la storia e con gli scopi della vita.

Mi capitò, sempre per lavoro, di andare in un paese dell’Africa in cui si erano rotti i le­gami familiari.

Gli uomini giravano insieme in bande, quando servivano delle donne le rapivano, quando aspettavano dei figli le abbando­navano, e loro dormivano tra uomini con le loro armi. Le famiglie si erano rotte, i vecchi mo­rivano. E’ una cosa che non avevo mai vi­sto.

Anche i popoli più crudeli e le bande più feroci, hanno sempre badato ai propri vecchi e ai propri bambini.

E anche gli uomini più tremendi hanno sempre badato alle madri dei loro bambi­ni, alle loro mogli, hanno sempre avuto degli affetti, dei legami.

Invece, ad esempio, nella Somalia di una ventina di anni fa tutto questo si era perduto. Ho rivisto quegli stessi segni di mostruosità collettiva in Bosnia.

Le vittime e i carnefici

Ricollegandosi a quello che hai detto, che una volta gli uomini difendevano le proprie donne, oggi un telegiornale su due ci racconta la storia di una donna as­sassinata. Eppure le fotografie spesso lo raccontano proprio con immagini di don­ne che hanno subito una violenza.

Anche qui bisogna avere come stella polare le belle immagini e le brutte imma­gini.

Andiamo ad indagare il passato, nelle chiese, nei nostri musei, vediamo che que­sto tema è sempre stato affrontato, e come veniva chiamata l’attenzione e la parteci­pazione verso la donna che subiva oltrag­gio. Ma non soltanto nelle chiese, se noi ve­diamo cos’è rimasto di antichi popoli, ve­diamo che gli uomini che lavoravano con le immagini si sentivano molto più fi­gli delle donne che subivano oltraggio, maga­ri in guerra, che di chi le aveva ol­traggiate.

Anche quando Cesare si compiaceva della virilità dei suoi uomini che stupra­vano le donne di Alesia, una città della Gallia, gli uomini che celebravano le ge­sta dell’esercito, quindi chi lavorava il marmo, chi lavorava la pietra, le rappre­sentavano in modo da chiamare l’atten­zione e l’amore degli spettatori sulle vitti­me più che sui carnefici.

La fotografia può seguire il sensaziona­lismo, senza indaga­re il prima e il dopo. Qual è l’importanza della lentez­za nella fotografia?

Come ho detto penso che un’immagine debba contenere in sé il prima e il dopo.

Anche se il dopo è solo sperato o atteso, anche se il fotografo sbaglierà deve inda­gare, aspettare, sperare, auspicare che il futuro sia diverso dal male che vede nel presente.

 “Bisogna studiare tutta la vita”

 Il fotografo può fare a meno dello stru­mento che una buona cultura può dargli? Una volta si faceva bottega, si andava dai maestri…

La cultura non basta mai, lo studio non basta mai, e bisogna che si studi per tutta la vita.

Io ho passato i 70 anni, e se cerco un senso alla mia vita, al perché ho vissuto in un certo modo, debbo dire per educarmi, e questa educazione continua tutt’ora.

Certe risposte non si possono trovare nelle università, Io i miei maestri me li sono cercati, ognuno deve cercare i pro­pri, altri che hanno intrapreso quel percor­so prima di lui.

Dovere del maestro è capire le esigenze dei propri allievi, capirne le diversità, e spronarli ad esplicitare quella critica.

Un maestro è chi ti dà il coraggio della tua diversità.

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