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Rapporto Cross: chi, come e dove

Un supporto scientifico per lo studio della criminalità organizzata

Dal 29 settembre sul sito dell’Osser­vatorio sulla Criminalità Organizzata dell’Università di Milano è disponibile il “Primo rapporto trimestrale sulle aree settentrionali”, un’importante re­lazione commissionata dalla Presidenza della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso.

L’Osservatorio, composto da alcuni ri­cercatori guidati dal professor Nando dal­la Chiesa, è stato istituito nel 2013 con l’obiettivo di raccogliere in un unico cen­tro scientifico le competenze e le energie formatesi nell’ambito delle molte espe­rienze didattiche e di ricerca condotte presso l’ateneo milanese.

Il rapporto costituisce il frutto di un la­voro di ricerca e analisi in cui il gruppo si è avvalso di una pluralità qualificata di fonti di informazione: dai documenti uffi­ciali, come quelli giudiziari o prodotti da strutture investigative, alle intense e diffe­renti esperienze di impegno e di studio in materia, al ricco patrimonio di conoscenze accumulato attraverso seminari e tesi di laurea sul fenomeno mafioso nelle comu­nità settentrionali, alla ricca rete di rela­zioni costruita con amministrazioni comu­nali, strutture investigative, università, realtà associative.

Proprio data la varietà di fonti, il gruppo di ricerca ha utilizzato e mediato fra una molteplicità di prospettive e metodologie affermatasi nel confronto scientifico, istituzionale e civile.

“Un alfabeto per la lettura del Nord”

Il gruppo di ricerca si è confrontato con difficoltà importanti. Problemi di ordine metodologico innanzitutto: ad esempio un basso numero di beni confiscati può espri­mere, anziché una modesta presenza di or­ganizzazioni mafiose, anche una caren­za di iniziative di contrasto delle stesse. In secondo luogo un’ incertezza derivante dalle sentenze della magistratura con rife­rimento alla contestabilità del reato di cui al 416 bis, nelle aree settentrionali: questa incertezza deriva dall’acerba formazione all’analisi e alla comprensione del feno­meno, oltre che del pregiudizio, che segna nel loro complesso le classi dirigenti set­tentrionali, secondo cui le organizzazioni mafiose al nord non avrebbero insedia­menti veri e propri e comunque non com­metterebbero al nord gli stessi reati com­messi nelle regioni di origine.

Nonostante queste difficoltà, la relazio­ne riesce ad offrire “una specie di alfabeto per la lettura della realtà settentrionale”. Il suo obiettivo dichiarato è “proporre una mappa articolata dell’aggressività del fe­nomeno mafioso nelle regioni e provincie del nord”, fornendo una chiave di lettura complessiva delle dinamiche in corso e suggerendo, al contempo, le probabili li­nee evolutive della presenza mafiosa sul territorio settentrionale.

La tesi di fondo, che rappresenta il maggiore riferimento teorico del rapporto, è quella che presenta il ruolo decisivo gio­cato dai piccoli comuni nell’evoluzione della vicenda mafiosa al nord.

“Mentre gran parte dell’opinione pub­blica è incline a pensare che il trasferi­mento dei clan al nord sia guidato dalle opportunità di impiego dei capitali di pro­venienza illecita nella Borsa e nella finan­za (…), in realtà la diffusione del fenome­no mafioso avviene soprattutto attraverso il fittissimo reticolo dei comuni di dimensioni minori, che vanno considerati nel loro insieme come il vero patrimonio attuale dei gruppi e degli interessi mafiosi”.

È proprio in questi piccoli comuni infatti che si costruisce quella capacità di controllo del territorio, di condizionamento delle pubbliche amministrazioni locali, di conseguimento di posizioni di monopolio nei settori basilari dell’economia, a partire dal movimento terra, che sono così importanti per i clan. Qui è possibile costruire, grazie ai movimenti migratori, estese e solide reti di lealtà fondate sul vincolo di corregionalità, o meglio di compaesanità, molto spesso rafforzate da legami di parentela di vario grado e natura. Inoltre l’inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell’ordine in alcuni di questi comuni garantisce ai gruppi criminali armati una facilità di esercizio de facto di una sorta di “giurisdizione parallela”; senza contare che qualsiasi azione dei clan che sia legata alle vicende dei comuni minori è per lo più ignorato dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali.

Fondamentale è poi la possibilità, nei centri minori, di facile accesso alle amministrazioni locali; infatti grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze si può controllare un intero comune specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza è poco diffuso tra gli elettori (come al nord).

Dopo aver esposto in apertura le princi­pali mappe generali della presenza mafio­sa, la relazione prosegue con analisi delle singole regioni seguendo l’ordine decre­scente “dell’indice di presenza mafiosa”, così come viene definito dal gruppo di ri­cerca: Lombardia, Piemonte- Val d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna e Triveneto. E dopo una descrizione e una valutazione d’insieme, ogni regione viene anche ulte­riormente scomposta per provincie, spin­gendo l’analisi ancora più in profondità.

Infatti è sempre incisiva e decisiva in una lotta la maggior conoscenza possibile dell’avversario che si intende combattere.

In questo ambito si deve notare, in par­ticolare, come il luogo della massima con­centrazione conosciuta di “locali” di ‘ndrangheta coincida con l’area comples­siva delle province di Milano e Monza-Brianza, ossia con un’area che presenta una densità demo­grafica di dieci volte maggiore alla media nazionale.

Questo perché l’elevata densità demo­grafica si associa di norma a fitti processi migratori, ma consente anche una mag­giore possibilità di mimetizzazione socia­le e più favorevoli opportunità di costru­zione di relazioni sociali e professio­nali anonime, che travalichino i confini dei singoli comuni. Inoltre un’alta concentra­zione di abitanti si associa anche ad una elevata percentuale di cementificazio­ne del territorio; un processo che implica una esaltazione delle opportunità di inseri­mento delle imprese mafiose.

Il caso Imperia

Particolarmente interessante appare an­che il caso della provincia di Imperia in cui l’indice di presenza mafiosa raggiunge il livello più alto di tutta la Liguria. In quest’ area, infatti, sono presenti impor­tanti famiglie ‘ndranghetiste ben inserite nel tessuto sociale. Ed inoltre tutti gli in­dicatori rilevati dal gruppo di ricerca di­pingono un quadro alquanto allarmante sfatando così l’immagine di una Liguria come isola felice.

La formula del successo sembra essere quindi “piccoli comuni-alta densità demo­grafica”.

Però l’analisi del gruppo di ricerca dell’Osservatorio coglie un’altra possibili­tà: ossia la presenza in aree con caratteri­stiche opposte: cioè a densità demografica più bassa della media nazionale. Questo perché “i comuni che si situano in aree scarsamente popolate sono più facilmente controllabili, si trovano nella situazione di isolamento prediletta dai clan anche nella madrepatria, si sottraggono ai movimenti di opinione che possono comunque for­marsi in quelli che finiscono per essere oggi grandi agglomerati metropolitani. Consentono cioè avanzate più invisibili e impunite e in essi si produce più veloce­mente una condizione di assuefazione e di omertà ambientale. Dinamiche di questo tipo si segnalano ad esempio nelle provin­cie di Pavia, di Bergamo e di Brescia.

Il rapporto fornisce alcune ragio­ni di ri­flessione sul piano strategico e al­trettanti stimoli sul piano operativo. In primis che il fenomeno mafioso appare nel nord in crescita costante, sia pure muovendo da punti di partenza e da gradi di radicamen­to piuttosto diversificati e che tale dinami­ca espansiva appare favo­rita da processi di sottovalutazione e di ri­mozione che coinvolgono di norma la maggior parte dei protagonisti della vita pubblica.

Solo da pochissimi anni, e solo in alcu­ni casi specifici, si sta infatti regi­strando una risposta degli enti locali sul piano del­la elaborazione di nuo­ve regole e di pro­getti formativi mirati.

Que­sto deriva dal fatto che “sottovaluta­zione e ri­mozione si intrecciano con un al­larmante de­ficit di co­noscenze”; anche, tal­volta, con ri­ferimento alle forze dell’ordine.

Un altro pro­blema è la visione e organizzazione d’insieme del controllo del territorio: i paesi, anzi­ché essere “periferia”, dimo­strano spesso di essere il cuore della que­stione mafiosa.

Un terzo tema individuato è quello di una notevole flessibilità, al nord ma non solo, del modus operandi dei gruppi cri­minali; questi possono avvantaggiarsi “dell’alta o della bassa densità demografi­ca, della ab­bondanza di risorse o della cri­si (usura, gioco d’azzardo), dei servizi so­ciali evo­luti o del degrado urbano, del ser­vizio pubblico o dell’economia privata; e oltre a ciò presentano un’alta spregiudica­tezza nella scelta della propria rappresen­tanza politica, senza predilezioni a priori per l’uno o l’altro schieramento”. Contan­do anche su un intenso ricambio genera­zionale, che però non perde di vista i va­lori criminali fondamentali. Il dinamismo mafioso impone insomma un più alto di­namismo istituzionale.

Consensi tuttavia limitati

Un’ultima annotazione può invece esse­re un po’ rassicurante: “le orga­nizzazioni mafiose, pur influenti sulla vita pubblica e capaci di interferire con il mo­mento elet­torale, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi “pacchetti” di con­sensi” e pre­sentano “una difficoltà visibile a conse­guire successi laddove si propon­gano di agire su teatri più ampi, dalle ele­zioni re­gionali a quelle europee, come an­che a in­vestire su una larga cerchia di can­didati”.

 

http://www.stampoantimafioso.it/2014/10/03/rapporto-trimestrale-cross/

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