E i ragazzi salvarono il quartiere
Belén, il cuore storico di Bogotà: l’ennesimo business per manager rampanti. Ma…
Era destinato a diventare l’ennesimo business per i manager dell’immobiliare ma un gruppo di giovani si è messo di traverso con un progetto alternativo.
Adesso per Belén quartiere storico nel cuore di Bogotà, in Colombia, c’è l’opportunità di riscrivere presente e futuro, Costruire uno sviluppo comunitario che lasci al passato il disagio sociale e la violenza delle bande armate.
Per questo è nata “Casa B”, luogo di formazione e incontro per gli abitanti del quartiere, fondata nel 2012 da sei giovani ritornati in Colombia dopo anni di studio e lavoro all’estero.
Quattromila abitanti, di cui 1500 bambini, una emergenza abitativa che costringe a vivere in case affollate e pericolanti. E una banda che sino a qualche anno fa terrorizzava i cittadini del quartiere (ridimensionata in seguito da un duro intervento delle forze dell’ordine, in vista dei progetti immobiliari in cantiere). Infine, negli ultimi anni, numerosi progetti di espansione edilizia, fra cemento e centri commerciali: così si presentava Belén agli occhi dei giovani colombiani che tre anni fa, con allegria e un pizzico di follia, hanno scelto di scommettere sul destino del quartiere, coinvolgendo i cittadini che qui vivono.
“Casa B – spiega il sociologo Dario Sendoya, uno dei fondatori del progetto – ha le sue radici a Roma ed è un progetto di respiro internazionale. Qui in Italia ho imparato che le cose possono succedere, che è possibile immaginare e vivere in maniera diversa”.
Le radici romane di “Casa B”
Dario ha studiato a Roma e ha dato vita con alcuni amici ad un primo progetto multiculturale che è l’embrione di Casa B. Poi, alcuni anni dopo, il viaggio in altre città europee e l’incontro con giovani colombiani espatriati negli anni duri del governo Uribe.
Con alcuni di loro Dario sceglie di tornare in patria, tre anni fa, per fondare una nuova “Casa” con in mano un “plan de via”, un piano di sviluppo, pensato e progettato durante una tesi di laurea.
Alla base c’è un concetto semplice quanto determinante per la nascita di “Casa B”: riscoprire i diritti di cittadinanza a partire dal legame con la terra. Un progetto che mette insieme sociologia e antropologia economica, con uno sguardo alle esperienze indigene e di resistenza socio-culturale colombiane.
“Escuela sin escuela”
Sebbene “Casa B” sia un progetto nato da esperienze internazionali sin da subito si è radicato nel tessuto sociale del quartiere. A fare da “ponte” fra il centro di aggregazione e i cittadini sono stati proprio i più giovani abitanti di Belén. “Casa B – spiega Dario – è stata co-fondata da quindici bambini, arrivati da noi quando stavamo mettendo in piedi la struttura e decidendo le attività di formazione culturale. Loro ci hanno aiutato a realizzare il progetto, l’hanno pensato con noi e sono stati il miglior “canale di comunicazione” con il barrío. Inoltre, abbiamo fatto una scelta chiara: non ci siamo finti poveri, non ci siamo raccontati diversamente da quello che siamo e questo ci ha reso credibili e autentici agli occhi dei bambini, delle loro famiglie, dei vicini di Casa B”.
Tante le attività di animazione culturale portate avanti in questi anni: dai corsi di lingue straniere, a quelli musicali e di arte, alla nascita della “Cine-Huerta”.
Cine-Huerta è uno spazio in cui si coltiva la terra per una migliore educazione alimentare e si proiettano film a cielo aperto. Quest’anno, durante l’esperienza di turismo responsabile fatta con Libera è stato proiettato, in spagnolo, I Cento Passi e in tanti hanno partecipato alla serata e conosciuto la storia di Peppino Impastato).
“Bisogna credere nei bambini – aggiunge Dario – perché loro faranno quello che non siamo riusciti a fare”. Con i ragazzi frequentano la “casa” una cinquantina di giovani. “Con loro stiamo costruendo questo progetto che – dice sorridendo Dario – neppure noi sappiamo bene cosa sia. Non sappiamo dire cosa stiamo facendo ma lo facciamo e speriamo che a continuare il progetto siano i piccoli co-fondatori di oggi”. Un passaggio di testimone, dunque, di questa “escuela sin escuela” in cui si sperimenta una didattica aperta, dove il concetto di sviluppo è declinato a partire dal territorio, dall’identità e guardando – dice Sendoya – a uno “sviluppo buono”.
Contro la crisi una “rete di affetto” sostiene il progetto. Ma come è organizzata quotidianamente “Casa B”?
“Una rete di affetto”
“Sulla carta è tutto chiaro: ciascuno ha un compito diverso per portare avanti le tante attività. La verità, però, è che è sempre un gran casino… un caos positivo, perché lo spirito di squadra prende il sopravvento e ci mette tutti in grado di intervenire su tutto”. Come ci racconta, non ci sono grandi “finanziatori” dietro il progetto. “I fondi sono pochi e la verità è che la più grande forza economica è stata e continua ad essere la rete di affetto che sostiene il progetto”. Sembra una utopia in tempi di crisi economica eppure a Bogotà è diventata realtà. Progetti per il futuro di “Casa B”?. “Crescere e continuare a fare quello che stiamo facendo – risponde Dario – d’altronde, dice il poeta,”Al andar se hace el camino”: il percorso si fa camminando”.