La guerra senza fine
A Bogotà nuove forme di resistenza trasformano i quartieri più poveri in spazi di partecipazione alternativa
Cocaina. E’ forse questo a cui si pensa quando si parla di Colombia. Un paese in cui è in corso una terribile guerra civile nonostante le cronache giornalistiche quotidiane non ne diano notizia.
Più di tre milioni di vittime in un conflitto che dura da circa 60 anni e che vede coinvolte le Fuerzas Armadas Rivolucionarias de Colombia – le Farc – , le Autodefensas, – i paramilitari -, i narcos, il debole Stato colombiano, e tutti gli interessi politici ed economici che ruotano attorno al narcotraffico, alle multinazionali e agli uomini di partito.
Un numero immane di innocenti, desaparecidos, desplazados e falsos positivos. Scomparsi, sfollati e falsi positivi. I primi sono persone letteralmente “fatte scomparire” da gruppi paramilitari (o da quelli emergenti) ed agenti statali per mettere a tacere l’opposizione e per indurre alla paura e al terrore; metodi immutabili e costanti nella storia di questo paese che continuano ad essere tollerati dalle corrotte istituzioni colombiane. Un esempio su tutti è stato il più grande genocidio politico che la storia ricordi; quello dell’Union Patriottica, il partito della sinistra colombiana che è stato vittima di uno sterminio sistematico con l’eliminazione di candidati e militanti tra 1980 e il 1990; più di 3500 quadri e dirigenti ammazzati o fatti sparire da agenti statali e dalle forze paramilitari, eredità della politica anticomunista americana basata sulla lotta a tutti gli oppositori per la sicurezza dello Stato.
Desparecidos e desplazados
Casi di desaparecidos continuano tuttavia ad essere registrati. Secondo la Commissione di Monitoraggio per la Politica Pubblica sugli Sfollamenti forzati “i casi di sparizione forzate aumentano ogni anno. Negli ultimi dieci anni, hanno raggiunto l’esorbitante cifra di 100.000 persone”. Nell’indifferenza della comunità internazionale migliaia di militanti di associazioni di diritti umani, sindacalisti, oppositori politici al regime colombiano, avvocati difensori dei prigionieri politici, intellettuali e studenti sono stati risucchiati nel buco nero delle sparizioni forzate.
L’altro tragico fenomeno è quello dei desplazados; comunità contadine, indigene, afro – discendenti e gitane sfollate forzatamente a causa del conflitto armato interno, il cui campo di battaglia sono le terre e le coltivazioni di coca sotto il controllo della violente bande criminali.
Secondo i dati del UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e della Commissione di Monitoraggio per la Politica Pubblica sugli Sfollamenti forzati, la Colombia è il primo paese al mondo per numero di sfollati interni. Il comune che ospita il maggior numero di rifugiati della Colombia è Soacha, uno dei più poveri, situato nel dipartimento di Cundinamanca; per raggiungerlo vi è un piccolo autobus che si arrampica sull’unica strada che conduce in cima a quasi 2900 metri. La carreggiata non è asfaltata, le casette sono in mattoni e legno coperte da lamiere in ferro. Le fogne non ci sono e l’acqua è raccolta in cisterne sui tetti delle case.
In queste baracche fatiscenti vivono quasi 1 milione di persone, una delle municipalità più popolate del paese a causa delle migliaia di persone desplazados, oltre 50mila, che dalla regioni limitrofe dal 1999 al 2006 si sono riversate in questo sterminato quartiere dormitorio.
In questo territorio fragile e sensibile operano diverse associazioni come Piedes escalzos e la Fondazione Tiempo de Juego, che cercano di insegnare ai ragazzi ad avere sogni e passioni e a impiegare il tempo libero attraverso attività ludiche – danza, teatro, musica, graffiti – per allontanarli dalle pandillas (le bande), dai gruppi armati e dai paramilitari.
I più piccoli del gruppo break dance sono quattro frugoli dagli occhi vivaci e scaltri. Mi avvicino alla fine della loro esibizione per congratularmi. Attratti dall’ospite straniero, si aprono alla conversazione con domande curiose e confidenze rivelatrici: «I sogni si possono realizzare e anche se siamo cresciuti in un quartiere povero, dobbiamo lottare; solo lottando possiamo raggiungere ciò che desideriamo». E che cosa desiderate? «Diventare i ballerini di break dance più famosi del mondo».
I “Falsos Positivos”
Nascere in certi posti non lascia molte vie d’uscita. Eppure a Soacha qualcosa sta cambiando. Lo dicono i sorrisi cordiali e le mani accoglienti che abbracciano i forestieri; lo dicono le madri e le nonne piene di luce e dignità. Donne ammirevoli che con grande coraggio si sono unite in un movimento di protesta chiamato Las madres de Soacha, il quale ha scoperchiato il vaso di Pandora dei Falsos Positivos.
Questi ultimi sono giovani civili ferocemente ammazzati e travestiti da finti guerrilleros dai militari dell’esercito colombiano con l’obiettivo di presentare risultati nell’ambito del conflitto armato ancora in corso. In base al numero dei guerrilleros uccisi vi era infatti un compenso in denaro che dopo lo scandalo dei Falsos Positivos non viene più dato sul numero di guerrilleros ammazzati ma sul numero di prigionieri. Ma ad essere assassinati sono stati anche i semplici militari che si rifiutavano di eseguire gli ordini dei generali e degli alti ranghi dell’esercito.
La storia che incontro fa rabbrividire. Raùl Carvajal Perez è un uomo anziano, con gli occhi pieni di dolore e una dignità commovente. Suo figlio, sottufficiale dell’esercito, è stato ucciso nell’ottobre del 2006 a nord di Santander per essersi rifiutato di assassinare persone innocenti all’interno di una politica di Stato volta a prosciugare il consenso delle Farc.
La testa spaccata e riempita di carta
Gliel’hanno riconsegnato con la testa spaccata a metà, svuotata e riempita di giornali per impedire che le analisi balistiche potessero dimostrare il tipo di arma utilizzata e le prove del delitto.
Da allora ha venduto la sua casa e mettendosi contro tutta la famiglia, intimorita da una possibile ritorsione da parte delle forze para-statali, ha iniziato a girare per la Colombia con un furgone in cui vive da quasi otto anni.
«Ho iniziato a girare con questo furgone perché deve essere fatta giustizia. Fino ad oggi né il governo, né la corte militare hanno fatto indagini perché queste morti – i falsi positivi – sono una politica di Stato. Io prima della legge e del risarcimento voglio che siano fatte indagini, non solo su mio figlio ma su tutti gli innocenti, perché devono uscire i nomi dei responsabili»
Raul parla della legge 1448 del 2011, introdotta dall’attuale governo di Juan Manuel Santos, più conosciuta come “Ley de Vìctimas y restitución de Tierras” che riconosce l’esistenza delle vittime del conflitto armato colombiano e sancisce il diritto alla giustizia e al risarcimento con la garanzia di non reiterazione. Un risultato importante, dato che i precedenti governi (guidati da Alvaro Uribe dal 2002 al 2010), hanno sempre negato le vittime e sono stati coinvolti nello scandalo dei “falsi positivi”.
La “Ley de Victimas”
Molti esperti di diritti umani credono però che questa legge sia priva di efficacia (sono state presentate solo 54.063 richieste di restituzione di terra, mentre l’85% delle famiglie vittime dello sfratto forzoso non hanno avanzato la richiesta di risarcimento) e puramente a fini elettorali dato che il Ministro della Difesa, durante il governo di Álvaro Uribe Vélez, era proprio Juan Manuel Santos, attuale presidente e candidato per il partito della U nelle elezioni presidenziali di quest’anno.
Il 15 giugno c’è stato il ballottaggio tra Juan Manuel Santos (centrodestra) e il delfino di Uribe, Oscar Ivan Zuluaga (del partito di estrema destra, Centro Démocratico), che al primo turno avevano ricevuto rispettivamente il 25,5 % e il 29,2% dei voti. Ha vinto Santos.
La sfida era giocata tutta sulla necessità di porre fine alla guerra e sul processo di pace con le Farc. Il governo di Santos ha riattivato i negoziati – in corso all’Avana e sotto la sorveglianza di Norvegia e Cuba- con i delegati delle Farc, tra cui spicca il nome di Luciano Marin, alias Ivan Marquez, leader ideologico e politico del gruppo armato rivoluzionario.
Attualmente le parti stanno discutendo sul quarto e sul quinto punto, la cessazione del fuoco e il risarcimento delle vittime del conflitto, dopo aver già trattato i punti relativi alla riforma agraria, la conversione della guerriglia in gruppo politico e il traffico di droga. Rimangono aperte due questioni; quella sul disarmo delle Forze Armate Rivoluzionarie e lo smembramento del paramilitarismo, imprescindibile non tanto per la fine del conflitto armato quanto per un autentico processo di pace.
La questione droga rimane tuttavia un capitolo spinoso. La guerra al narcotraffico arroccata su una posizione militarista, legata alla cosiddetta operazione “Seguridad Ciudadana” e connessa agli interessi economici neoliberali, promossi dagli Stati Uniti e dalle grandi multinazionali, rischia di far naufragare il processo di pace. Troppi i vantaggi dei gruppi oligarchici e dei paramilitari, molti dei quali riabilitati e in funzione all’interno delle istituzioni colombiane che utilizzano il narcotraffico come metodo di accumulazione mafiosa del capitale, e lo Stato, come strumento per il ricorso alla violenza generalizzata.
La via d’uscita da questo modello di accumulazione illecita del capitale, che contraddistingue tutti i crimini della globalizzazione, dal traffico di armi a quello di esseri umani, dalla contraffazione ai reati ambientali, risiede nella strutturazione di reti di cittadini che possano permeare la società e proporre nuovi modelli, differenti dal sistema attuale.
Il progetto “Casa B” e “Marca Barrio”
E’ quello che sta avvenendo nel barrìo di Belén, un quartiere storico di Bogotà separato da un frontiera immaginaria, a soli due isolati, dal turistico rione della Candelaria, protagonista della storia coloniale Santafereña. Qui un gruppo di persone – tra cui Daario Sendoya, Jose Camilo Rodriguez e Stefanie Battisti – incontratesi a Berlino nel 2008, hanno deciso di creare una casa culturale che potesse generare una serie di processi di rete e di aggregazione, partendo dalle dinamiche e dalle necessità della comunità locale.
Così è nata Casa B, spazio di mediazione e creazione che dal 2012 apre le porte a vicini (e non) offrendo ai bambini e alla comunità corsi di lingua straniera, laboratori di stencil, graffiti, sceneggiatura, fotografia, musica e la Cine-huerta, un orto comunitario biologico con cinema.
Insieme a questo progetto si è sviluppato quello di “Marca Barrio”; l’idea è sviluppare un marchio che possa aiutare a migliore le condizioni e la qualità di vita degli abitanti. «Come?» – chiediamo a Diego Parra, uno degli ideatori del progetto. «Facendo (ri) innamorare i cittadini del proprio quartiere, iniziando con un logo e rinforzando il vincolo comunitario, affinché questo quartiere possa trasformarsi in una vetrina di processi positivi e in un museo vivo, dove il capitale che conta sia quello degli artigiani, delle associazioni locali e delle donne».