venerdì, Novembre 22, 2024
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Antimafia e politica Lo Stato ha “trattato” sempre. Prima, durante e dopo

Davvero l’antimafia”non ha politica”? Ma la ma­fia una sua politica l’ha sempre avuta…

“L’antimafia non è nè di destra nè di sinistra!”. Sbagliato. L’antimafia nasce nettamente di sinistra, anzi – poiché a quei tempi la parola “sinistra si usava poco – direttamente “comunista”.

Sono già comunisti, negli anni ’20, Ni­colò Alongi e Giovanni Orcel, il sindacali­sta contadino e quello metalmeccanio am­mazzati dalla mafia. E sono “socialcomu­nisti”, dal Quarantatrè in poi, tutti i mili­tanti antimafia – Accursio Miraglia, Placi­do Rizzotto, Turiddu Carnevale… – assas­sinati a decine dai mafiosi di allora, come anche i grandi e popolarissimi leader (Mommo Licausi, Michele Pantaleone) dell’antimafia di quel periodo.

Il motivo è semplice. La mafia, allora, era in sostanza il braccio armato dei lati­fondisti; e i partiti socialista e comunista riunivano soprattutto i contadini poveri e i braccianti. Lo scontro era frontale. Ed era uno scontro senza mediazioni. Anche in altre parti d’Italia le lotte sociali erano dure e a volte sanguinose. Ma in nes­sun’altra regione esisteva un’organizzazio­ne padronale armata come la Cosa Nostra dei primordi.

La mafia, per la cultura ufficiale, era “un’invenzione dei comunisti per diffama­re la Sicilia”, come dichiarò a un certo punto un cardinale e la stampa antimafia si limitava a “il L’Ora”, il giornale comuni­sta. C’erano eccezioni: ad esempio Pasqua­le Almerico, un sindaco Dc, fu ucciso nel ’57 per essersi opposto all’ingresso dei ma­fiosi (che allora non si appoggiavano su Andreotti ma su Fanfani) nel suo partito. Ma erano, appunto, eccezioni.

I filo-mafiosi “in buona fede”

Molti dei filo-mafiosi – coloro che, nell’ansia di contrastare il “comunismo” sostenevano più o meno apertamente il si­stema mafioso – erano persone perbene e in buona fede. Ma erano mossi in primis da un’antichissima concezione classista, di disprezzo totale verso i viddani, creature subumane da tener lontano da qualsiasi contatto con la politica e le faccende “civi­li”: a fine ‘800, dopo una sommossa conta­dina, i proprietari terrieri della provincia di Caltanissetta firmarono una petizione per impetrare dal governo l’abolizione dell’istruzione elementare obbligatoria (da poco introdotta) che instillava idee di “no­vità” ai figli dei contadini.

In secondo luogo, i galantuomini erano mossi da un anticomunismo paranoico, senza mezze misure, per cui qualunque or­ganizzazione di sinistra, anche la più mo­derata, non era che l’anticamera di una fe­roce tirannia: non avversari politici, ma nemici da combattere a morte, con ogni mezzo. Lo stalinismo degli anni ’30 in Russia – va detto per equità – era stato ef­fettivamente una dittatura feroce, per quanto difficilmente apparentabile ai “co­munisti italiani.

La mafia al centro

In terzo, ma non ultimo, luogo la Sicilia allora era un avamposto di guerra. La terza guerra mondiale, fra l’America e la Russia. L’isola, proprio al confine fra i due imperi, era appena stata strappata dagli americani ai nazisti con perdite gravissime, e usando anche mezzi poco ortodossi, fra cui la ma­fia. Gli americani, che vedevano l’intera faccenda su un piano non politico ma mili­tare, erano decisissimi a tenere la posizio­ne impiegando, anche stavolta, qualunque mezzo.

Questi tre fattori – la lotta di classe fra latifondisti e bracciani, la lotta politica in­terna, la lotta militare all’esterno – misero la mafia al centro degli equilibri politici si­ciliani. Siciliani, bisogna precisare, non nazionali.

I rapporti fra i boss mafiosi e Andreotti, acclarati al di là da ogni dubbio dalle in­chieste di Gian Carlo Caselli, erano in questo senso fisiologici. Non erano una tabe personale di Andreotti.

Giolitti – cin­quant’anni prima – fu accu­sato non senza fondamento di essere in Si­cilia “il ministro della malavita”.

I fascisti di Mussolini, tol­to l’episodio iniziale (e rapidamente rien­trato) del pre­fetto Mori trattarono tranquil­lamente coi mafiosi. Gli americani li usa­rono per lo sbarco del ’43, e poi per la ge­stione dell’Isola conquistata. Fanfaniani e an­dreottiano ne fecero uno strumento politic­o ed elettorale.

Lo stesso onestissimo La Malfa, epigo­no del buongoverno repubbli­cano, in Sici­lia aveva il suo Aristide Gun­nella; quando i probiviri del Pri proposero di espellerlo, a essere espulsi furono i pro­biviri. Nè An­dreotti fu l’unico a incontrarsi fisicamente, e sistematicamente, coi boss mafiosi.

Ai boss, libertà di movimento

Il rapporto mafia-politica era strettissi­mo, ma geograficamente e istituzionalente limitato. Compito della mafia era: a) “fare le elezioni” in Sicilia per i partiti di gover­no; b) uccidere o altrimenti mettere in con­dizione di non nuocere gli oppositri del la­tifondo, cioè i “comunisti”; c) presidiare militarmente l’Isola in appoggio ai presidi ufficiali (non solo le Forze armate ameri­cane e italiane ma anche i vari Gladio, Stay Behind e copagnia armata) nell’even­tualità di una qualsiasi emergenza.

Ai mafiosi, nel cambio, veniva concessa una certa libertà di movimento dell’Isola, e in ispecie nella sua parte occidentale. Sin­daci ed altri importanti esponenti vennero tratti direttamente dalle loro file; magistra­tura e forze dell’ordine vennero sostanzial­mente dissuase dall’applicare la legge nei loro riguardi.

Tutto ciò riguardava l’Isola, e non dove­va oltrepassare lo Stretto: cosa che nè i mafiosi erano proclivi a chiedere, nè i po­litici a prendere in esame. La “trat­tativa” era limitata, ma era permanente.

Gli omicidi dei “comunisti”

E arriviamo così, in un quadro tranquil­lo e senza scosse – salvo le decine di omi­cidi di “comunisti” o di violatori del con­trollo territoriale – fino alla metà degli anni ’70: quando quasi contemporanea­mente si veri­ficano tre fenomeni, indipen­denti fra loro ma infime convergenti.

Il primo è l’urbanizzazione della Sicilia dagli anni ’60 in poi e lo spostamento del baricentro sociale dalle immense campa­gne dei latifondi alle città che rapidamen­te crescevano insieme alla Regione.

Il con­trollo dei latifondi diventò secon­dario, per i boss più avveduti, rispetto alle suc­culente speculazioni edilizie delle cit­tà, dove rapi­damente si svilupparono vio­lentissime “guerre di mafia” (per esempio, a Palermo, la strage di viale Lazio) per il controllo de­gli appalti.

Il monopolio dell’eroina

Il secondo elemento è l’apertura – di so­lito per opera di componenti più moderne di Cosa Nostra – di nuovi e più redditizi mercati dei traffici di droga. Questi ultimi, nella mafia tradizionale, erano stati una componente accessoria e non centrale; per lo più si trattava di rifornire via Palermo i mercati americani.

Fra la metà e la fine de­gli anni ’70 ven­ne intensificata (grazie an­che alle strutture paramilitari americane sul posto) l’acquisi­zione di morfina-base dal Trian­golo d’Oro ai confini della Thai­landia; venne aperto un massiccio mercato euro­peo; venne istituito (soprattutto grazie agli emergenti catanesi) uno stretto rap­porto coi fornitori di Cocaina della Co­lombia e di morfina-base della Turchia; venne svi­luppata una rete di “raffi­nerie”, per lo più in Sicilia, in cui la morfina-base veniva trasformata in quantitativi industiali di eroina pronta per la distribuzione.

La Sici­lia diventò rapidamente mono­polista quasi assoluta di questa importante sostan­za, nel cui mercato assunse una rile­vanza pari – ad esempio – a quella del Giappone per le elettroniche.

Tutto questo trasformò radicalmente non solo le strutture di Cosa Nostra, ma anche la figura tipica del boss mafioso: dal vec­chio “uomo di rispetto”, non ric­chissimo, forte soprattutto di una lunga e riconosciu­ta capacità di mediazione, si passa un un nuovo tipo di boss, basato più sui gruppi di fuoco che su un’autorevolez­za accumu­lata negli anni, e soprattutto straordinaria­mente dotato – grazie al mo­nopolio di fatto dei traffici di eroina – di capitali liquidi, che gli davano un peso non solo criminale ma anche politico as­solutamente scono­sciuto ai suoi predeces­sori.

Questo signifi­cò, fra le altre cose, l’immediato squilibrio del rapporto mafia-politica, in cui la parte debole e periferica assunse rapidamente un ruolo molto supe­riore.

La crisi della politica Usa

Il terzo elemento di trasformazione dela metà degli anni ’70 è la crisi mediterrana della politica americana. Col senno di poi, si trattò d’una crisi tutto sommato li­mitata nel tempo e nello spazio; ma l’America in guerra non la percepì affatto così. Le basi Nato francesci buttate fuori da De Gaulle; persa la Grecia con la cadu­ta dei colon­nelli; perso il Portogallo di Sa­lazar; in cri­si il regime di Franco; in peri­colo – con le avanzate elettorali di sinistra del 74-64 – la stessa Italia; e, sullo sfondo di tutto, le effervescenze sociali degli anni ’70.

A che cosa serviva la P2

Non è strano che i circoli responsabili Usa (im­pegnati, ripetiamo, non in una competizio­ne ideologica ma in quella che secondo loro era una guerra) abbiano bat­tuto l’allar­me. E non è strano neanche che, tutti o al­cuni, abbiano pensato di ricorrere agli stessi strumenti adoperati, in una crisi ita­liana analoga, nel 46-47.

E cioè:

– affidamento a settori “affidabili” (o creati ex novo) di Cosa Nostra di un più ri­gido controllo del territorio;

– infiltrazione massiccia nella maggiore organizzazione semi clandestina, la mas­soneria (nell’ultima fase della P2, la mag­gioranza dei nuovi aderenti erano siciliani o operanti in Sicilia; ma già nel dopoguer­ra tutti i dirigenti separatisti, usati dal go­verno Usa per premere su quello italiano, erano massoni di alto grado);

– inaugurazione di una fase per così dire “di movimento”, d’attacco, e non di sem­plice conservazione dello status quo.

L’antimafia degli anni ’80

Questa nuova fase dei rapporti ma­fia-politica, dalla fine degli anni ’70 in poi, non viene però contrastata principalmente dalla vecchia antimafia “comunista”, che si era intanto allentata per le trasformazio­ni intervenute nei partiti che le avevano originariamente dato vita.

L’antimafia de­gli anni ’80, che pur com­prende i residui della vecchia (la prima grossa manifesta­zione antimafia degli anni ’80, per dalla Chiesa, fu ancora orga­nizzata dallaFgci), è prevalentemente u’antimafia nuova, ur­bana, con una forte componente cattolica e un riferimento “ideologico” alla società ci­vile. Meno per­seguitata di quella degli ann ’40-’50, pagò tuttavia un alto ccntribu­to di sangue. Le sua radici sociali sono nel nuo­vo ceto me­dio, soprattutto giovanile, delle città.

Gli uomini della nuova antimafia

Gli uomini della vecchia antimafia furo­no il contadino comunista, il segretario di sezione, il militante sindacale. Quelli del­la nuova antimafia lo studente, il magi­strato, l’insegnante, il prete di periferia.

Non più “comunista”, l’antimafia restò tut­tavia soli­damente di sinistra, una sini­stra non-parti­tica, sociale, con un implici­to anelito, che non l’abbandonò mai, a pro­durre soggetti “politici” che tuttavia man­tenevano un’autonomia e una diffi­denza nei con­fronti della politica ufficiale.

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