Chi di palazzone ferisce di rimborso perisce
Ovvero tredici milioni per il Palazzo di Cemento
E’ il simbolo del degrado di Librino, il luogo dove hanno picchiato e minacciato di morte Luciano Bruno. Ma in quel palazzo, tra famiglie di poveracci (sfrattati nel 2011), mafia e droga, a rimanerci fregato è stato soprattuto l’ex sindaco Raffaele Stancanelli. In questi giorni i 13 milioni da lui ottenuti dal governo Berlusconi per ristrutturare il palazzone di 16 piani verranno appaltati dall’amministrazione di Enzo Bianco, mentre del sindaco ex missino rimarrà solo il ricordo del predissesto. Causato da un rimborso da 22 milioni per un palazzone mai pagato dal Comune. Che l’avvocatura poteva evitare.
Il marchio internazionale del degrado, il Jolly Roger del vandalismo. La minchia gigante disegnata su una delle colonne del palazzo di cemento a Librino è una perfetta convergenza tra significante e significato. «Cos’hanno fatto le istituzioni per risolvere il problema?». Per la risposta basta guardare il logo di una perfetta operazione di pirateria istituzionale. A breve, una gara d’appalto da tredici milioni di euro darà un po’ di respiro al disastrato settore dell’edilizia: soldi destinati alla ristrutturazione della torre di sedici piani di proprietà comunale, con l’obiettivo di riportare i 96 alloggi per famiglie alle condizione originarie dei primi anni ’90.
Un’era mitica per Librino, selvaggio ovest della periferia sud: i senza casa, a centinaia, arrivavano su segnalazione di efficientissimi sensali al soldo dei clan mafiosi. Per poche centinaia di migliaia di lire in tempi brevi assegnavano le case dentro i palazzoni. Destinate, sulla carta, agli aventi diritto presenti nelle graduatorie di Comune e Istituto case popolari. Il trucco è che, per sanare l’illecito e diventare i legittimi occupanti dopo pochi anni, basta solo un’autodenuncia. Da quel momento, per legge, nessuno ti butterà fuori.
E’ andata così in viale Moncada e viale San Teodoro, in viale Bummacaro, Grimaldi e Castagnola. Nomi di strade imparati solo ora dai 70mila residenti, perché allora non c’erano ancora, e il sistema di orientamento era giapponese come Kenzo Tange, ideatore della città satellite. Decine di palazzoni uscivano dall’anonimato, designati come “case rosse”, “case gialle”, “case verdi”, a seconda del colore esterno, che le tante bizzarrie dell’architettura dell’epoca vollero sgargianti. Accanto, le cooperative, luoghi che con nomi come “Amiconi” puntavano alla riscoperta di una via italiana al comunismo quella delle coop rosse romagnole. “Risveglio” e “Ravennate” divennero i luoghi dell’élite del quartiere, gli operai con un lavoro. Decine di altre costruzioni venivano identificate per dignità di carica: “case della polizia”, “case della finanza”, a seconda della forza armata di appartenenza degli inquilini.
“Che fortuna – hanno pensato gli occupanti del palazzo più alto di tutti, quello di viale Moncada 3 – si vede il mare, l’Etna, la piana di Catania”. Una vista mozzafiato, che ripagava dell’ascensore rotto, dell’acqua corrente che mancava, della sporcizia messa per tenere i curiosi lontano. Con un solo problema: chi abitava il Palazzo di cemento era più abusivo degli altri. L’edificio, mai consegnato ufficialmente al Comune e mai collaudato, non poteva ospitare nessuno. Gli abitanti diventano ostaggi della criminalità organizzata, che assume il controllo dell’edificio.
Una situazione durata vent’anni, quando, dopo decine di arresti, blitz antidroga e omicidi, spesso nemmeno degni di finire sulla cronaca de La Sicilia con l’indicazione corretta della via, l’edificio, sempre più identificato col suo soprannome, viene sgomberato.
I fondi per rifarlo vengono dal Piano Casa 2010 del governo Berlusconi, spiega ora il presidente della commissione Lavori Pubblici, il piddino Niccolò Notarbartolo, che fa parte della maggioranza che sostiene Enzo Bianco e dalla precedente amministrazione ha ereditato il problema del Palazzo di cemento. Ma anche la soluzione, che in soldoni rappresenta una cifra quasi pari al bilancio annuale dei Servizi sociali del Comune di Catania.
Non a caso fu il professore Carlo Pennisi, titolare nel 2011 dell’assessorato alla Famiglia, nel maggio 2011 a capeggiare lo sgombero del fortino dell’illegalità. L’Ance, l’associazione dei costruttori edili, allora rappresentata dall’imprenditore antimafioso Andrea Vecchio, dà una mano a modo suo: dopo lo sgombero distrugge le scale d’ingresso ai piani superiori.
L’Oikos, la ditta titolare del servizio di nettezza urbana, che riceverà 170 milioni di euro in 5 anni, porta via “straordinariamente” tonnellate di rifiuti, raccolte, però, dai volontari dei centri Talità Kum e Iqbal Masih. Il Comune ha persino evitato di fare una multa, almeno a Librino, ad Anc, lo street artist divenuto famoso per i “divieti di mafia”, che i vigili urbani volevano multare. Anc con i suoi colori ha provato ad abbellire lo stabile abbandonato, disegnandoci su un gran Don Chisciotte dal naso lungo quanto una spada, forse in ricordo di tante bugie dette e ridette da tutti fuori e e dentro e sul palazzone.
Lo sgombero “è un segnale straordinario di legalità per Librino”, dichiarava il sindaco del tempo, Raffaele Stancanelli, che lasciando però qualche particolare in secondo piano. Il primo lo segnala una tragedia: un giorno di ottobre del 2012 Cristian, dodici anni, per poco non muore mentre gioca, cadendo in un buco nel cemento sulla rampa d’accesso al palazzo.
Rammarico e frasi di circostanza, ma il buco lo coprono gli abitanti dei palazzi vicini, molti di loro ex abusivi “sanati” di una torre vicina: ci sanno fare con i mattoni, tanto da costruirsi dei garage fai-da-te alla base. “Mi raccomando, non la scriva ‘sta cosa dei parcheggi, sennò il Comune ci fa pagare l’Imu”, dice uno di loro.
Chi proprio col mattone non ha confidenza sembra invece il Comune di Catania: a un mese dal “buco” al Palazzo di cemento, nel novembre 2012, arriva quello al bilancio comunale. In giorni di frenetiche sedute in consiglio comunale sul bilancio annuale, un risarcimento record da 22 milioni di euro mette fine all’epoca del centrodestra, che dovrà chiedere alla Corte dei conti l’accesso al fondo salva enti.
A decretare la fine di Stancanelli, un anno dopo gli annunci sulla “liberazione” del Palazzo di cemento, è un altro palazzone in viale Castagnola: il Comune, nel 1990, non ha mai pagato alla Fasano costruzioni di Salvatore Massimino la costruzione di una torre di 15 piani.
«L’avvocatura comunale non ha mai presentato opposizione. E io ho atteso i termini per il ricorso prima di presentare il conto all’amministrazione», spiega il legale della società.