5 marzo: vittime tra la fine degli anni di piombo e l’intransigenza contro la camorra
Roma, 5 marzo 1982, Alessandro Caravillani
Aveva diciassette anni, Alessandro Caravillani, e studiava a Roma, al liceo artistico di piazza Risorgimento. Per andarci, a scuola, doveva percorrere un tratto di strada che comprendeva piazza Irnerio e qui si trovava la filiale di una banca, la Banca Nazionale del Lavoro. Un tratto che lo studente conosceva bene, quotidiano. E quel giorno avrebbe dovuto essere come tutti gli altri. Ma qualcosa interruppe il suo percorso.
Era una rapina che un gruppo terroristico di estrema destra, i Nar (Nuclei armati rivoluzionari), stava compiendo. Otto i componenti del commando che sparavano quando uscirono dall’istituto di credito ingaggiando un conflitto a fuoco con pattuglie delle forze dell’ordine nel frattempo giunte in piazza Irnerio. I colpi cominciarono a sfrecciare anche in direzione della gente che nulla c’entrava né con l’uno né con l’altro dei fronti opposti schierati.
Alessandro, quel giorno, aveva un ombrello, uno di quelli corti. Nonostante le dimensioni ridotte, lo si scorgeva spuntare e quando fu visto fu scambiato per un pistola. Il giovane, al pari, venne percepito come un agente di polizia in borghese. Tanto bastò perché la sua vita si interrompesse in quella piazza, in una mattina di fine inverno quando un colpo di coda degli anni di piombo gli si parò davanti.
Santa Maria Capua Vetere, 5 marzo 1983, Pasquale Mandato
La storia di Pasquale Mandato, maresciallo degli agenti di custodia, si interruppe il 5 marzo 1983 di fronte al carcere di Santa Maria Capua a Vetere. La sua colpa: essersi opposto a un boss della camorra. Per assassinarlo, i suoi carnefici devono aver studiato il sottufficiale, averlo seguito per scoprirne le abitudini. Così, il giorno in cui venne ucciso, il militare stava facendo proprio quello che faceva tutti i giorni. Pasquale Mandato partiva da casa e andava a Santa Maria Capua Vetere passando per un’infinità di cambi tra la periferia napoletana e Portici. Lo stesso percorso di quel giorno, il 5 marzo 1983, interrotto da una visita al tabaccaio e all’edicolante.
Alle 8 del mattino mancavano ancora pochi passi al carcere quando Mandato, dall’angolo di corso Umberto, venne avvicinato da tre auto. Si abbassarono i finestrini e dall’interno spuntarono pistole e fucili a canne mozze. Una decina di killer della camorra per sparare a un maresciallo che in un attimo si ritrovò a terra agonizzante per i colpi ricevuto al collo e alla testa. A quel punto un killer, Michelangelo D’Agostino (uno degli accusatori di Enzo Tortora), scese dall’auto per il colpo di grazia.
Pasquale Mandato, 53 anni, sposato e con tre figli, moriva per l’intransigenza nei confronti della criminalità. Come nel caso di Burrafato e Moltalto, aveva fatto in modo che alcuni camorristi non potessero beneficiare di “favori” che non spettavano loro. A Santa Maria Capua Vetere il maresciallo Mandato era giunto nel 1976, proveniente da Taranto. Aveva già maturato una lunga esperienza in varie carceri italiane (Parma, Napoli, Pianosa, Pozzuoli e Taranto). Da alcuni anni era il responsabile dell’ufficio matricola a Santa Maria Capua Vetere e rivestiva i1 grado di maresciallo e vicecomandante delle guardie carcerarie.