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Come fosse oggi

24 febbraio 1986, Luca Rossi e quel proiettile sparato dalla pistola di un poliziotto

Quando esce dalla casa milanese di via Varchi, sono da poco passate le 21.30 del 23 febbraio 1986, una domenica. Poche ore dopo, intorno alle 3.30 del mattino successivo, Luca Rossi, studente ventenne di filosofia, muore dopo che un proiettile sparato da un agente della Digos fuori servizio gli ha trapassato l’addome e gli ha lesi vari organi. Militante di Democrazia Proletaria, quella sera è con un amico e insieme decidono di raggiungere l’abitazione di un altro ragazzo. E per farlo devono prendere un filobus, il 91, alla fermata tra piazza Lugano e via Bodio.

Non si accorgono di quello che sta intanto accedendo a pochi passi da loro. Vuoi perché rischiano di perdere la perdere la cosa e allora devono correre e perché, in senso opposto, sta transitando il 90 che occulta i movimenti di ciò che succede. Sentono solo i colpi d’arma da fuoco, un paio, e poi Luca crolla a terra. Se i soccorsi arrivano presto e il ragazzo viene portato all’ospedale Niguarda, nulla potrà salvarlo dalle lesioni della pallottola esplosa da una Beretta 92S che passa attraverso fegato, stomaco e milza.

Ma perché morire così, in una qualunque serata milanese di fine inverno? Secondo la questura meneghina, i fatti si sarebbero svolti in questo modo:

Un agente (27 anni, da tre mesi in forza alla Digos) sta andando in auto a comprare un gelato per la famiglia. Vede due giovani (età apparente 25 anni) scendere da un 500 rossa e dirigersi verso una Golf nera. Cercano di tirar fuori in malo modo l’uomo dalla guida. L’agente interviene qualificandosi. La Golf si allontana; i due prima lo insultano, poi lo picchiano, quindi risalgono sulla 500 con l’intenzione di mettere sotto il poliziotto. A questo punto gli spari. Come dice il dottor Serra, uno dei proiettili “va a incocciare” contro un giovane che stava andando a prendere l’autobus. Il proiettile estratto dal corpo di Luca è ammaccato; “forse perché lo ha colpito di rimbalzo” dice il dirigente della squadra mobile. La “ricostruzione” non è altro che il racconto dello sparatore, in stato di choc e con una prognosi di 10 giorni per percosse.

Omicidio colposo sarà l’accusa formulata contro l’agente di polizia, come per altre vicende analoghe che sarebbero venute nel corso degli anni successivi, e le fasi processuali sono ricostruire sul sito dedicato alla memoria del ragazzo. E su questa storia avrebbe scritto Umberto Gay di Radio Popolare:

Ogni giorno a Milano, ma nell’hinterland e in provincia è ancora peggio, i giovani fanno le spese di una politica di ordine pubblico tesa unicamente a salvaguardare la superficie, a proteggere il grande/luminoso/ricco centro della metropoli da chi è giudicato diverso, da chi non è controllabile, da chi può infastidire il cittadino che scrive ai giornali o alle autorità per lamentarsi del chiasso, del tossicomane che scippa per sopravvivere, delle puttane e dei sex-shop. Stampa e autorità lavorano di concerto e si condizionano a vicenda creando nuovi mostri, continui pericoli sociali ed emergenze.

Così di volta in volta, “wanted” diventa il punk con la cresta colorata e vestito di nero, il tossicodipendente che anche l’ultimo poliziotto sa che ruba per estremo bisogno, il gruppo di “randa” adolescenti del quartiere dormitorio che in mancanza d’altro sfascia la cabina della SIP. Un elenco che potrebbe durare a lungo con un comune denominatore: i figli stessi della metropoli, certo i meno protetti e garantiti, criminalizzati e “usati” per mantenere a un determinato livello il clima di tensione nella città. Accade così che persino un quotidiano come La Repubblica, nelle sue pagine milanesi, abbracci la logica dell’allarme.

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