2012/ Generazione Falcone
Ludovica vive e cresce in provincia di Messina a Capo D’Orlando, un paesino di turisti e commercianti, Cosa nostra sino a quel 1992 l’ha conosciuta così, con l’ammonimento di un padre e i ricordi di scuola. Ma prima delle stragi erano arrivati altri segnali, i mafiosi erano anche nel suo paese, anche vicino a lei.
«Un giorno a scuola una mia compagna era stata chiamata dalla maestra per uscire prima della fine dell’orario scolastico. Solo dopo qualche giorno ho saputo che suo padre era stato gambizzato».
Ludovica non mette subito insieme queste cose, una sembra così lontana, l’altra così vicina. Chi sono i mafiosi? Le chiedono spesso a scuola di parlarne, ne parlano in tanti, ci sono le fiaccolate per le strade del paese. Nasce proprio lì la prima associazione antiracket d’Italia.
Marika, che nel ’92 ha 13 anni, invece è valdostana. Di quel giorno ricorda le immagini che in televisione trasmettono “Scommettiamo che?”, il varietà della prima rete Rai, «non viene sospeso, nemmeno di fronte a questa tragedia».
Durante i Tg i giornalisti hanno tutti il volto tirato, la voce bassa. Le immagini sono strazianti ma lo show va avanti lo stesso. Ripartono i giochi e da piccola non sai distinguere se è stata una cosa grave o meno. E’ morto qualcuno e solo più in là Marika capirà chi.
Trentatré anni dopo si trova al tribunale di Milano a seguire per un giornale un processo di mafia. Si chiama ‘ndrangheta la mafia che oggi uccide con la stessa violenza che nel ‘92 colpì Falcone e Borsellino a 57 giorni l’uno dall’altro. Questa volta ha ucciso una donna, Lea Garofalo: aveva la colpa di voler essere libera dal marito e dalla mafia.
Marika oggi fa la giornalista e combatte da anni il pregiudizio che vede la mafia “solo al sud”. «Al nord – dice Marika – ci sarebbero solo i soldi. Ma è solo un modo per non vedere le cose come stanno, perché dopo il denaro arrivano i mafiosi». Anche in Valle D’Aosta, come tenta di dimostrare con le sue cronache quotidiane.
Vi ricordate Carmelo, quello che giocava a calcio per le strade di Caltanissetta il giorno della strage di Capaci? Due anni fa ha smesso di odiare la sua terra, ha capito che vittime e carnefici a volte sono due facce della stessa medaglia ma che la risposta non è fuggire ma lottare. Che i mafiosi sono una minoranza ma la mafiosità tende ad affermarsi nella maggioranza del Paese.
Ed è su questo che ha scelto di impegnarsi a scuola, e anche fuori, facendo l’educatore di strada, presso parrocchie, scuole di periferia, doposcuola.
«Togliere il consenso dei giovani, dei più piccoli, è l’unica strada. Noi della generazione “delle stragi” ce ne siamo andati per non concederglielo. E’ stata una scelta legittima, io la rivendico. E molti di noi sono rimasti e gliel’hanno negato ma hanno pagato con l’assenza di lavoro, con l’insicurezza di un futuro incerto, questa scelta. Altri hanno ceduto, hanno tradito Giovanni Prima li ho giudicati, ma dopo li ho capiti. Da pochi anni sono tornato in Sicilia, in fondo era quello che pensavo di fare da un po’ di tempo e trovo che noi, tutto sommato, siamo rimasti fedeli a quel giorno, a quell’orrore visto come fosse un film».
«Penso di poter dire che non abbiamo tradito Giovanni e Paolo – dice Carmelo – L’ha fatto una parte della magistratura, una parte della politica, una parte del mondo affaristico ma non i giovani che erano adolescenti quando quel 1992 arrivò a spazzare via l’innocenza di tutti»,
Anche Ludovica, la giovane di Capo d’Orlando (Me) ha preso impegni precisi con il suo passato. Oggi è una ricercatrice universitaria, ha studiato sociologia e si sta specializzando proprio nello studio della criminalità organizzata in Italia e nel mondo.
Da alcuni anni è impegnata con la rete di associazioni di Libera, si occupa di ricerca e università. Lo scorso anno ha promosso uno studio sulla percezione che i giovani hanno delle mafie, come la vedono oggi. Ricordandosi spesso degli occhi con i quali la vide lei, per la prima volta. E la continua a vedere, anche qui, nella Capitale.
Le loro storie sono solo alcuni ritratti privati del quadro di un movimento antimafia che non si arrende. Sono i ragazzi di Addipizzo, nati sotto la spinta della battaglia antiracket e quasi tutti adolescenti nel periodo delle stragi, proprio a Palermo. Sono i giovani che hanno scelto di lavorare con le cooperative nate sui beni confiscati ai boss. Sono i tanti giovani che operano nei quartieri periferici di Catania. Sono i giovani docenti che hanno scelto di far rinascere le scuole a partire da quelle dislocate nelle periferie di un Sud, spesso dato per perso. Gli studenti universitari e i ricercatori che non hanno mai smesso di promuovere percorsi di studio e conoscenza su questi temi.
Sono i tanti giovani che sono cresciuti con il “mito” degli inviati di guerra ma non quelli in collegamento dall’Iraq o dall’India, ma quelli che raccontavano Ballarò e la Vucciria, Scampia e l’Aspromonte. E poi hanno scelto di farlo quel mestiere. Sperando di non dover mai raccontare, da giornalisti, quello che nel 1992 videro attraverso gli occhi degli adulti e che li fece diventare grandi, prima dei loro fratelli maggiori. Quella storia che appartiene a loro prima che ad altri, perché lì si è giocato il loro futuro.
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«Che fine hanno fatto le migliaia di ragazzi e ragazze che manifestavano ostilità alla mafia, nel ‘92-93, dopo gli attentati a Falcone e Borsellino?» – chiedeva Marcelle Padovani.
Sono impegnati a vincere questa battaglia. Malgrado la politica, malgrado alcuni adulti di allora e di oggi, rischiano di farcela perché sono rimasti liberi. E buona parte di loro ha scelto di liberare chi libero non è.e Paolo, perché non avevano molta scelta.