2 settembre, dalla mano del terrorismo alla camorra passando per Beirut
2 settembre 1980, il tipografo Maurizio Di Leo
2 settembre 1980 – Maurizio Di Leo è un cittadino come tanti. Ha 34 anni, lavora come tipografo al quotidiano romano Il Messaggero e per questo lui forse più di altri i giornali li legge. Ha seguito le cronache che da un mese esatto a quella parte scandagliano qualsiasi aspetto della strage alla stazione di Bologna e ha seguito anche gli altri fatti di cronaca e terrorismo descritti sulle pagine del giornale per cui lavora. Ma come tanti deve aver pensato che sì, nella furia di ciò che accade, potrebbe capitare anche a lui, pur probabilmente non credendoci davvero. Così è tranquillo quando il 2 settembre 1980 finisce il suo turno di lavoro in via del Tritone e prende la strada di casa, che si trova a Monteverde.
Con lui, a varcare la soglia del Messaggero, ci sono due giornalisti che però non hanno staccato. Stanno seguendo le indicazioni ricevute da una telefonata in base alla quale i Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, gruppo terroristico di estrema destra, hanno lasciato un volantino dentro a un cestino. Ad attendere che si vada a vedere c’è qualcuno che aspetta un giornalista specifico, Michele Concina, che da tempo scrive di neofascismo. Ecco allora che quando compare Maurizio Di Leo avviene l’errore e si consuma la tragedia. Tragedia che inizia prima con un pedinamento a bordo di una Vespa e poi si conclude a Monteverde, quando il fuoco viene aperto sul giovane tipografo, ammazzato con 7 colpi.
All’omicidio segue un primo comunicato che parla proprio di Michele Concina, ma ne giunge in seguito un secondo in cui si riconosce lo scambio di persona. A processo, tuttavia, nessuno sarà condannato per il delitto di Maurizio Di Leo perché le testimonianze dei neri Angelo Izzo e Cristiano Fioravanti non saranno ritenute attendibili in sede di giudizio.
2 settembre 1980, i giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni
Quello stesso giorno, quello stesso 2 settembre 1980, spariscono senza lasciare traccia due cronisti, Graziella De Palo e Italo Toni. Lei ha 24 anni, lui 50 ed entrambi sono specializzati in Medioriente e in traffico di armi. La denuncia di scomparsa viene presentata dai genitori della ragazza il 4 ottobre 1980. Agli agenti della questura di Roma raccontano che i giornalisti erano partiti il 22 agosto precedente per il Libano passando attraverso la Siria. Per preparare il viaggio, si erano avvalsi dell’aiuto di Nemer Hammad, portavoce in Italia di Yasser Arafat, e avrebbero dovuto rientrare il 15 settembre. L’ultimo contatto avuto con la figlia risale al 23 agosto quando, da Damasco, Graziella spedisce un telegramma scrivendo solo au revoir, arrivederci.
Dopodiché il silenzio. Fino alla metà di settembre, tuttavia, non ci si preoccupa dato che è difficoltoso comunicare dal Libano, precipitato nel 1975 in una guerra civile che che durerà diciassette anni. Quando però i giornalisti non rientrano, la famiglia tenta invano di avere informazioni dall’Olp di Roma e dalle ambasciate di Beirut e Damasco. Solo accertamenti successivi hanno permesso di ricostruire i movimenti della coppia fino al 2 settembre.
Da Damasco, il giorno dopo l’arrivo su un aereo della Syrian Air, partino in auto per la capitale libanese passando attraverso un varco controllato dai siriano-palestinesi, dato che non dispongono di visto d’ingresso. Quindi alloggiano all’albergo Triumph, nell’area ovest della città, sotto il controllo palestinese. Il 1 settembre si presentano all’ambasciata italiana comunicando i propri spostamenti per i giorni successivi: è infatti loro intenzione raggiungere il meridione del Paese dove realizzare alcuni reportage sulle basi del Fronte democratico per la liberazione palestinese (Fplp). Il giorno successivo, dunque, viene a prenderli un’auto direttamente di fronte all’albergo, dove lasciarono i loro effetti personali. A quel punto scompaiono. E scompare anche una parte degli oggetti appartenuti ai due giornalisti. Come un pezzo del bloc notes. Alla famiglia De Palo vennero però restituite diverse paia di scarpe da donna mai appartenute a Graziella.
A oggi sulla vicenda c’è segreto di Stato, valido fino al 2014. Questo a causa dei molteplici depistaggi che il Sismi ai tempi ha attuato per impedire di accertare cosa è accaduto ai cronisti comparsi. Ma per quei depistaggi c’è stata una sola condanna a carico di un maresciallo dei carabinieri. Gli ufficiali, invece, sono morti prima del processo. E manca ancora la verità piena su ciò che si è consumato a Beirut.
2 settembre 1998, Giuseppina Guerriero, vittima collaterale
Giuseppina Guerriero ha 43 anni e vive a Marigliano, in provincia di Napoli. Per contribuire alla sostegno della famiglia insieme al marito Nicola Quartucci, operaio, lavora in un ristorante di Saviano. I turni, per lei, sono quotidiani e fino a mezzanotte sta lì, in cucina, a darsi da fare e a pensare a quando rientrerà a casa per dare il bacio della buonanotte ai quattro figli, già addormentati. Ma il 2 settembre 1998 accade qualcosa. Accade che Nicola sente suonare a tarda ora il telefono e non è Giuseppina che lo avverte di un intoppo con annesso ritardo. È un dipendente dell’ospedale di Nola che lo avverte di correre lì perché lì hanno appena portato sua moglie.
La donna non ha avuto un incidente. O almeno non il tipo di incidente per il quale quella parola viene utilizzata. Giuseppina, che finisce in coma e muore poco dopo, sta per diventare una vittima collaterale in un agguato di camorra. È successo infatti che una moto si avvicina a una Y10, l’utilitaria dell’Autobianchi su cui viaggia Saverio Pianese, esponente del clan dei Capasso, che deve essere giustiziato. Ma i killer sono così pasticcioni che dei 4 proiettili esplosi nemmeno uno raggiunte il loro obiettivo. I colpi infatti infrangono i parabrezza di un’altra auto, un’Alfa 33, quella che guida Giuseppina Guerriero, e uno la raggiunge alla testa.
Muore così dunque una donna il cui unico scopo era quello di dedicarsi alla famiglia. Muore una persona normale, di quelle che non lasciano strascichi lunghi anche anni nelle cronache nei giornali perché nel corso della sua vita non ha mai fatto nulla per finirci sui giornali. E di certo nulla ha fatto per essere giustiziata per mano camorristica. Piomba invece nel classicissimo posto sbagliato al momento sbagliato e, con il trascorrere del tempo, la sua esistenza e la sua fine saranno consegnati all’oblio per tutti, con l’eccezione di Nicola e dei quattro figli rimasti.