11 gennaio: nel 1979 fu ucciso il vice brigadiere Filadelfio Aparo e nel 1996 il piccolo Giuseppe Di Matteo
11 gennaio 1979, Filadelfio Aparo, altra vittima in divisa di Cosa nostra
Prima c’erano state Bari, Taranto, Nettuno e poi l’assegnazione a Palermo, all’inizio all’antirapine e in seguito alla catturandi, squadra mobile, a quei tempi guidata da Boris Giuliano che sarebbe stato assassinato pochi mesi dopo, il 21 luglio 1979. Filadelfio Aparo, 44 anni, era un poliziotto esperto che, negli anni, aveva saputo distinguersi nei momenti più delicati delle operazioni condotte sul campo. E poi, terminato il lavoro, rientrava a casa per dedicarsi alla moglie Maria, 36 anni, e ai tre figli, che nel 1979 andavano da uno a dieci anni.
Forse se l’immaginava di aver dato fastidio, il sottufficiale, che si era meritato l’ammirazione dei colleghi anche quando si trattava di lavorare sulle carte, come aveva dimostrato contribuendo alla definizione di un organigramma delle famiglie di Cosa nostra. Di certo, però, non si aspettava di morire in una mattina d’inverno, l’11 gennaio 1979, in piazza tenente Anelli, praticamente sotto casa mentre salutava la moglie, atteso dai sicari della mafia che gli spararono contro numerosi colpi di lupara e di calibro 38.
Una vendetta della criminalità organizzata fu l’ipotesi principale su cui lavorarono gli inquierenti fin dal primo momento. Due i nuclei di fuoco che avevano agito. Il primo a piedi, a pochissima distanza da Aparo, e un secondo a bordo di una Fiat 128 di colore rosso, poi abbandonata e bruciata in borgata Pagliarelli. E nella pioggia di proiettili ci fu anche un ferito. Era un vicino di casa, Cosimo Tarantino, 67 anni.
11 gennaio 1996, Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito rapito e sciolto nell’acido
L’11 gennaio, ma di molti anni dopo, nel 1996, fu il giorno in cui si dovette registrare un altro omicidio. Stavolta era quello di un ragazzino che non visse nemmeno quattordici anni. Era Giuseppe Di Matteo, nato a Palermo nel 1981, ed era figlio di collaboratore di giustizia, Santino, che parlava troppo e che doveva essere messo a tacere. Allora, per raggiungere lo scopo, si scelse la strada della vendetta trasversale prendendosela con il bambino.
Il suo omicidio, però, fu l’ultimo atto di un calvario iniziato ben prima. Giuseppe, infatti, era stato rapito poco più di due anni prima, il 23 novembre 1993, mentre era al maneggio di Altofonte. Secondo quanto affermò un altro pentito, Gaspare Spatuzza, per catturare il ragazzino i mafiosi si travestirono da agenti di polizia, trucco che indusse Giuseppe a fidarsi e a seguirli senza frapporre problemi. Ma poi venne caricato su un mezzo furgonato, trasportato altrove e consegnato a chi doveva tenerlo prigioniero.
Per alcuni giorni dopo la scomparsa non giunse alcuna notizia. La madre, Franca Castellese, lo cercò ovunque e le sue peggiori paure si palesarono il 1 dicembre, quando giunse il primo biglietto dal contenuto inequivocabile, “Tappaci la bocca”. A corredo c’erano due istantanee che ritraevano Giuseppe e, se il padre all’inizio tentennò, poi decise di proseguire con la sua collaborazione. Lo strazio del ragazzino durò alla fine 779 giorni e, dopo essere stato assassinato, il suo corpo fu sciolto nell’acido perché mai più nulla fosse trovato.